La città dei vivi: una mappa del labirinto. La catabasi di Nicola Lagioia nell’Averno romano8/11/2020 Ibant obscuri sola sub nocte per umbram perque domos Ditis vacuas et inania regna: quale per incertam lunam sub luce maligna est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra Iuppiter, et rebus nox abstulit atra colorem. Andavano senza luce nella notte solitaria, attraverso la tenebra, attraverso le case vuote, i regni deserti di Dite: come fosse un viaggio per boschi con una luna incerta che filtri appena i suoi raggi avari tra il fogliame, quando Giove ha sommerso il cielo d’ombra opaca e la notte ha privato di colore le cose. (1) Su «Il menabò 5», nel 1962, comparve un articolo di Italo Calvino, co-fondatore della rivista stessa. Si intitolava «La sfida al labirinto» (2): era una lunga e densissima riflessione dell’autore sul legame fra letteratura e mondo, o sulle risposte che la letteratura avrebbe potuto dare agli avvenimenti che hanno sconvolto il cosmo «dalla prima rivoluzione industriale» in poi. Sfruttando il titolo di un libro di Robbe-Grillet (3), Calvino si soffermava sul concetto di realtà come labirinto (4):
«Questa forma del labirinto è oggi quasi l’archetipo delle immagini letterarie del mondo (…) una configurazione su molti piani ispirata alla molteplicità e alla complessità di rappresentazioni del mondo che la cultura contemporanea ci offre». (5) La «letteratura del labirinto gnoseologico-culturale», scriveva allora Calvino, «ha in sé una doppia possibilità»: l’autore può scegliere di assumere un’attitudine «oggi necessaria per affrontare la complessità del reale», rifiutando visioni semplicistiche e banalizzanti perchè «quello che ci serve è la mappa del labirinto, la più particolareggiata possibile». Dall’altra parte lo stesso autore può scegliere di abbandonarsi al fascino del labirinto, rappresentando «l’assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo». Ancora, Calvino ha premura di sottolineare come resti fuori da questo discorso «chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alla loro difficoltà». Quid nunc? Cosa può fare, dunque, la letteratura?
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Questa è la recensione del Drago Mondadori «Alice, Dorothy, Wendy». Grazie all'Ufficio Stampa Mondadori a Sofia di Dear Authors, organizzatrice di questo Review Party, l'ho letto in anteprima, e ho deciso di parlarvene.
Qui trovate il post realizzato da Sofia, che ha letto Alice. Qui, invece, quello di Evelyn che ha letto Dorothy. Questo il link per l'acquisto del libro. La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede. (Pier Paolo Pasolini, Dai diari 1943-1953) Città sommersa di Marta Barone è la storia di un padre, Leonardo, e di un ragazzo, L.B., che, per dirla con Pasolini, «bestemmia / accarezza le gioie… nessuno sa i suoi calcoli di luce». L.B., lo sfuggente personaggio che Barone mette al centro di questo libro, è stato un militante di sinistra extraparlamentare, membro di «Servire il popolo», partito marxista-leninista che «assomiglia più a una setta» negli anni dei disordini politici che si sono tramutati in violenza. Ha avuto una «decent life» per dirla con le parole di un suo amico («Leonardo ha avuto la vita che voleva. È sempre stato dove voleva. Ha continuato a praticare la democrazia quando della democrazia non fregava più niente a nessuno» / «Lui è stato fino all’ultimo, proprio fino all’ultimo, con quelli con cui doveva stare»).
Leonardo Barone, invece, è il padre di Marta: lo è diventato quando aveva quarantadue anni e lo è stato per troppo poco tempo. Marta ha perso suo padre nel giugno del 2011: con lui aveva sempre avuto un rapporto complicato («per non dire conflittuale») fatto di molti silenzi. D’altronde, scrive, «Quando siamo giovani ci limitiamo a constatare che i nostri genitori esistono, e non ci interessiamo molto di loro» e ancora «gli adulti sono misteri insondabili; gli adulti vanno e vengono, i loro visi appaiono e scompaiono». Marta e suo padre hanno vissuto in case diverse per oltre vent’anni: di lui, della sua lunghissima vita sapeva davvero poco: era certa che fosse stato medico, poi professore universitario. «Non capivo che lavoro facesse, perchè avesse ricominciato a studiare», da bambina gli zampettava attorno, avvolta nella sua luminosa ombra densa di vita ed esperienze, ignara di quello che ci fosse stato prima di lei. Nel 2013, in dicembre, succede una cosa: Marta trova la memoria difensiva che l’avvocato di suo padre aveva presentato in Cassazione nell’ambito di un processo in cui era coinvolto per partecipazione a banda armata. Non è una sorpresa, almeno non del tutto: Marta sapeva che suo papà era stato arrestato con l’accusa di essere un terrorista, che alla fine era stato assolto con formula piena e che non era mai stato un terrorista, per davvero. Ma il ritrovamento di queste carte è un fucile che le esplode in faccia, dice, perchè inizia ad emergere «dalle brume del burocratese» un personaggio che le appare sconosciuto, completamente estraneo. È L.B. e non più Leonardo, identificato con le sue iniziali perchè è ormai un personaggio letterario (deve essserlo), lontano nel tempo, di cui si può provare a raccontare la storia, frammentata e incerta. Sulla pandemia si è scritto e parlato a lungo, e ancora si scrive e si parla, senza sosta: il libro di Morin si inserisce in questa corrente di commenti, opinioni, spesso confusi e controproducenti nell’ambito di un dibattito che, invece, ha bisogno di essere alimentato di pensieri di ben più ampio respiro. Cambiamo strada di Edgar Morin, pubblicato da Raffaello Cortina Editore, è un libro per riflettere: una raccolta di riflessioni e analisi del nostro tempo puntuali e precise, capaci di insinuare dubbi che possano smuovere la mente.
Morin sfrutta la sua esperienza di filosofo e sociologo, coniugandola a quello che la vita gli ha insegnato in novantanove anni di ‘immersione nel mondo’. È per questo che il libro inizia con un Preambolo dal sottotitolo «Cent’anni di vicissitudini»: Morin è testimone dell’epidemia di influenza spagnola, di cui, ricorda, è quasi morto. Adesso, quasi cent’anni dopo, «Il Coronavirus viene a ripropormi l’appuntamento rimandato al momento della mia nascita». Ben presto si passa a quello che è il nucleo centrale del libro, da cui proviene appunto il sottotitolo: «Le 15 lezioni del Coronavirus»: l’obiettivo di Morin è quello di formulare pensieri critici a partire da riflessioni legate a quella che chiama «l’esperienza del confinamento». Cosa ci ha insegnato il lockdown? Cosa abbiamo imparato in questi mesi? Possiamo trasformare quello che è stato un periodo buio, di dolore e morte, in un momento per fermarci a riflettere e ripartire, cambiando strada? Morin tenta di interpretare il presente e di guardare al futuro, per provare ad immaginare cosa ci aspetta. E può farlo solo interrogandosi e interrogando il buio, scandagliandolo nel profondo, per tirar fuori la luce. Giriamo. Questo libro di Giuseppe Genna pubblicato nel luglio scorso da Rizzoli si apre con una parola, una sola, che rappresenta il movimento (1), una delle molteplici anime dell’opera: giriamo, in girum imus recitava il palindromo latino. Ed effettivamente oggi noi questo facciamo: nel tempo fermo, congelato e terribile della pandemia, nel silenzio delle strade vuote, del mondo muto per la paura, noi, «divorati dal fuoco, consumati dalla vita e dall’ansia di non essere più noi», ci muoviamo irrequieti e frenetici. È questo il primo grande paradosso del nostro tempo e dunque anche di questo libro: nella staticità di un momento immobile noi abbiamo preso a girare, schegge scagliate nel presente. L’anima vaga e la parola è impazzita, scheggia anch’essa: non esiste più formula che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari (2). E con la parola è impazzito lo scrittore, «testimone non so di cosa», che gira affannato a bordo di una Vespa in una Milano-Mondo deserta e vede il vuoto, vede il silenzio, rischia tre mesi di reclusione «perché sta facendo lo scrittore». Ha perso l’aureola, avrebbe detto Baudelaire, questo scrittore che non vede nulla, nulla sente e vede tutto, sprofonda nella notte ma vuole vegliare, vuole raccontare, rischia il carcere per fare il suo mestiere, per narrare il presente: è uno di noi, siamo noi. È un poeta maledetto che può «girare in incognito [...] in tutto simile a voi, come vedete!» (3) ed esattamente come quel Poeta «fratello del lettore» si elevava
Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées, Des montagnes, des bois, des nuages, des mers, Par delà le soleil, par delà les éthers, Par delà les confins des sphères étoilées, (4) Genna vede la Città dall’alto «come un drone, salendo sopra le ferrovie, nei pontili periferici, nelle piazze sospese sul livello della strada, verso CityLife, verso la torre Unicredit ascendendo oltre il quartiere dei giornalisti, oltre gli igloo in cemento bianco alla Maggiolina [...]», e cerca di comprendere (non senza sforzo, però) «il linguaggio dei fiori e delle cose mute». Giriamo e guardiamo. Gira e guarda quest’autore che ci presta i suoi occhi, le sue parole, le sue gambe agili e snelle. Vede: Milano. «Milano la pretenziosa, Milano la metropoli» che è anche un terribile asteroide scagliato nel vuoto ad alta velocità, «Milano la città concentrica, l’ipercontemporanea, l’internazionale, la boriosa, la rugginosa, l’impertinente, città cieca, il modello». Simbolo di un sistema arrugginito e affannato, di un modello capitalista che non funziona più, l’avevano detto i ragazzi di Greta che non c’è più tempo. S’è inceppato questo terribile insieme d’ingranaggi che avevamo messo in piedi, visto che «la città blandiva il fuorisalone e il design, dimenticando il nosocomio, l’anziano astratto e cancellato». Il 19 febbraio non ci sono ancora contagi, non ci sono morti. Nei salotti milanesi i giovani stilisti parlano del nuovo business: vestire le vittime del virus. È un’idea geniale, sentenziano entusiasti in coro, i buyer cinesi impazziranno. Vestire la morte, dunque, questo è l’obiettivo, coprirla per continuare ad ignorarla con leggerezza. «Ce ne freghiamo il cazzo di Wuhan chiusa, dove c’è il focolaio del virus, viene dai pipistrelli. Ridiamo. Il nostro ideale è che ci muoviamo. Ridiamo e ridiamo e ridiamo, annoiati. [...] siamo indenni, puliti, estranei alla morte. L’angoscia è per i soldi, è dei poveri». E Milano, la #bellaMilano #NonSiFerma, «cosa faremo dopo non è un problema», d’altronde «che cazzo ci frega di un’epidemia a Wuhan? Non intendiamo rinunciare a niente, non ne vediamo l’utilità, l’imminenza alla rinuncia è impensabile». Viviamo l’età dell’oro, «sudiamo pulitissimi, abbiamo risorse di flessibilità inimmaginabili, tiriamo la corda che non si spezzerà mai. Questo siamo noi, Milano». Milano-Mondo. Ma anche Milano- Codogno, Milano-Alzano Lombardo, dove l’ospedale infetto viene riaperto e nessuno deve saperlo, che è infetto, e soprattutto Milano-Bergamo, la città di Giorgio Gori, l’uomo che dà voce alle banche. Non importa chiudere le industrie, non importa se gli operai s’ammalano: il prodotto interno lordo della città non può subire un calo percentuale importante, e il sindaco «si offre con il monito a tutti i cittadini e alle imprese [...] in diretta dal ristorante ‘Mimmo’ di Bergamo, beve Sauvignon con la moglie, scrive e il mondo lo legge: “Bergamo non ti fermare! Questi giorni ci hanno messo a dura prova. [...] sono convinto che un virus non fermerà Bergamo, né oggi né in futuro, e noi che amiamo questa città dobbiamo ridarle presto coraggio e vivacità. Con questo spirito stasera ho proposto a mia moglie Cristina di venire a cena da Mimmo: [...] per dire a noi stessi, e per dire a tutti, forza Bergamo!”». È il 27 febbraio: Genna conta all’inizio di ogni capitolo i morti, i contagi. 650 contagi, 27 morti, ma l’uomo delle banche, l’uomo di Confindustria dice forza Bergamo, non ti fermare. «I burocrati non sanno nulla, non vedono più nulla». «Eravamo già tutti malati». Ciechi ci siamo lasciati guidare verso Codogno, l’ignota Codogno, abbiamo imparato parole remote (CPAP, quarantena, paziente 1, positivo) e la lingua si è adattata, ha «forgiato la propria insufficienza». Un uomo, tutto è partito da un uomo, ci dicono e ci diciamo: ora dobbiamo indagare. «Bisogna identificare i contatti, scavare nella sua vita, recuperare gli spostamenti, muoversi con cautela, fare i tamponi a chi è stato in stretto contatto con l’infetto». Un uomo: si chiama Mattia. Tutto è caos, impalpabile nebulosa, vago ed indefinito, ma «il capitale disdegna il collasso, i poli logistici funzionano», le persone non tremano, anche se forse hanno un po’ paura, «le merci non sono infette». «Sappiamo tutto, non sappiamo niente». I tarocchi delle false cartomanti sui marciapiedi dei vicoli umidi di Brera non predicono alcun futuro: sono muti. È un terribile Castello dei destini incrociati: le carte sono sparse sul tavolo, scoperte, «eppure sembrava che nessuno di noi avesse voglia di interrogare l’avvenire, dato che d’ogni avvenire sembravamo svuotati, sospesi in un viaggio né terminato né da terminare». (5) Si compongono qui le storie, gli atti / scancellati pel giuoco del futuro (6), e non c’è più spazio per domande di senso, «non c’è più spazio per indovinare, non c’è più cartomanzia che tenga. È finito tutto il tempo, siamo già morti». Genna racconta l’inconsapevole, velocissima danza dell’uomo che s’affaccia sul baratro: è il 4 marzo. «La storia accelera, fermandosi. Tra pochi giorni, ha pensato, sarà emergenza nazionale». 9 marzo. «Sei entrata tu, tagliente come un “eccomi!”» (7): l’autore la chiama vita nova, dolce reminiscenza dantesca. È questo il cambiamento di rotta, il grumo di dolore che colpisce feroce le anime, lo schianto violento dell’asteroide, l’inizio di uno smarrimento collettivo terribile, è tutto qui. Vediamo: la morte attorno. «Si aspettano ore per un letto in terapia intensiva. I pazienti più anziani non sono rianimati e muoiono nella solitudine, senza neanche il conforto di cure palliative appropriate», sentono il dolore fin dentro le ossa e dobbiamo vederlo, il loro dolore, dobbiamo sentirlo e leggerlo nella scrittura. «Le famiglie sono avvertite al telefono del decesso, spesso da un medico sconosciuto ed esausto». Video durissimi giungono dalle terapie intensive: ci copriamo gli occhi. Gli infermieri diventano eroi, i medici angeli: ci impegniamo a coprirli di doni, omaggi, sconti, pizze gratis in ospedale. L’infermiera, quell’infermiera, diventa «l’immagine definitiva dei nostri sforzi speciali, per ammirarla ovunque nel pianeta». Ce la siamo scelta e colorata, «emozionale. Siamo lì nel reparto, ma non vogliamo vedere corpi, liquami, macchinari». Ci costruiamo una realtà che sia facile da guardare, che sia Reality e non carne e corpi, teatro buio dell’emozione e del sentimento, la cristallizziamo con maestria in un’immagine perfetta, principesca: vogliamo vederla e rivederla ancora, mandarla in TV per commuoverci insieme, nella civiltà dello spettacolo che abbiamo (ri)cucito con pazienza e caparbietà. Siamo «una nazione asincrona, come la luce stellare», che immatura si trova a confrontarsi con un fatto del tutto fuori dall’ordinario: «la Realtà, con l’iniziale maiuscola, ha fatto improvvisamente irruzione nella finta realtà sciorinata dalle appendici spettacolari che, a partire dagli anni Ottanta hanno devastato la coscienza degli individui.» (8) Il dolore è ovunque. La scrittura di Genna è labirintica, pulsante, testimone perfetta del suo spasmodico movimento e del suo febbricitante tentativo di descrivere la realtà attraverso l’artificio letterario. Vagabonda ma non senza meta, gira e guarda e osserva e decodifica il reale. Paolo Lago ha parlato di «geopoetica del disastro» (9): «una scrittura che presta attenzione ai luoghi e li carica di senso». L’autore è la proiezione materiale dell’essere umano in un mondo ormai inabitato, e spiega così il senso del suo vagare al posto nostro: deve «vedere tutto, riportare tutto, ogni parola, ogni gesto compiuto, ogni tattica e ogni azione, comporre il tuo ritratto, descrivere le condizioni interne al carcere, interne ai reparti di terapia intensiva, [...] pensare all’oltre, immettermi ovunque, provocare qualsiasi reazione, amare intensamente e più profondamente odiare, confondere le acque e inventarmi una realtà che non c’è, restituire il senso della morte, infittire di parole tutto [...] prendere le parti dell’abominio e sacralizzare la vita, le puttane, i preti, i più umili, i più disdicevoli tra noi, tutta l’ostetricia che fa venire alla luce il nuovo mondo, poi cancellarmi da qui, privo di nome e di risguardo, ignoto o ignorato, una sola voce lontana, solo offuscato, e piano piano andarmene». Come scrive Adriano Masci sul Manifesto, «l’io narrante che conduce la narrazione è chiamato a permeare l’invisibile»: è qui l’altro paradosso. La scrittura, nel permeare l’invisibile, si arricchisce. Si riempie, si fa tondeggiante di parole, termini, espressioni: diventa barocca e ipnotica, potente, nuda e cruda, diretta, sferzante (e le parole diventano vento). Ancora, per raccontare l’invisibile Genna «deve appunto ricorrere alla forma del racconto, perché nella cronaca non c’è mai la verità, e solo distorcendo si dà corpo a una febbre che è vera testimonianza». (10) Genna propone il vedere come incarnazione del valore della scrittura, e diventa contemporaneamente scrittore che documenta la realtà e giornalista che la studia. Ricorda, in questo, il Saviano di Gomorra, che sa («Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova» (11) ), che vaga anche lui a bordo della sua Vespa nel ventre di Napoli, e sposa il sacrificio del compiere la missione suggerita da Arendt nell’esergo del suo libro: «Comprendere cosa significa l'atroce, non negarne l'esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà». Lo sforzo letterario di Genna è lo stesso di Saviano: è il tormentarsi, cercando di capire se sia «possibile tentare di capire, scoprire, sapere senza essere divorati, triturati», se la scelta sia «tra conoscere ed essere compromessi o ignorare – e riuscire quindi a vivere serenamente.» E insieme Saviano e Genna approdano alla stessa necessità di scandagliare il tempo del presente: «E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità» (12). «E io sono sveglio, sono uno dei custodi, trovo il prossimo agitando il legno acceso tra gli ex voto accanto a me. Perché veglio? Uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente». Genna è sveglio e deve vegliare, deve essere vigile mentre gli altri, suoi fratelli, dormono: come Saviano ha capito che sapere, capire, in questo tempo incerto, diviene una necessità. Reality è un libro bellissimo di cui avevamo bisogno. È il ritratto di una società spaccata e fragile, di un’umanità stanca e sfiduciata, pesante, che trascina lenta e pigra il proprio corpo lungo il cammino. È un libro difficile che non vuol chiudersi mai, che si fa sentire fin dentro le ossa, sotto la pelle, con la sua intensa, incisiva carica letteraria, ed è il libro di cui abbiamo bisogno per cercare di capire la pandemia e le pandemie, per interrogarci, non superficialmente, su cosa è successo, dove stavamo andando, dove possiamo andare, dove andremo. Noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto; forse il nostro cammino a non tòcche radure ci addurrà dove mormoni eterna l’acqua di giovinezza; o sarà forse un discendere fino al vallo estremo, nel buio, perso il ricordo del mattino. Ancora terre straniere forse ci accoglieranno; smarriremo la memoria del sole, dalla mente ci cadrà il tintinnare delle rime. Oh la favola onde s’esprime la nostra vita, repente si cangerà nella cupa storia che non si racconta! (13) L’ultimo capitolo di questo libro si chiama Oltre la fine, e gli ultimi protagonisti che animano queste pagine sono i ragazzi, ritratti al termine di un percorso mentre «si alzano per primi, stirando le giovani membra. Tutti cominciano a chiedersi l’un l’altro cosa è successo». È un’immagine cristallina e molto potente, un epilogo che poi, in fondo, da ragazza, mi piace leggere come una dedica. In un’intervista ad Esquire (14) l’autore ha affermato che a suo parere non tornerà tutto come prima. Ecco, parlare di futuro è sempre un grande impiccio da quando la pandemia ci ha scosso la vita, e per aiutare il cuore che ancora si spaura di fronte all’infinito del domani ho scelto le parole di Eugenio Montale (d’altronde, lo dice Genna, «ora ci viene tolta ogni cosa, tranne la poesia»): noi non sappiamo quale sortiremo, ma il futuro, questo è certo, è nelle nostre mani. Io ho conosciuto Reality fra i banchi di scuola, nel primo confuso giorno di questo confuso quinto anno di liceo. C’è Leopardi da fare, un programma da finire, ma deve anche esserci il tempo per interrogarci insieme su ciò che è stato, perché esiste «una verità non raccontata, riportata, fotografata, ma è lì che ti si dà» (15). D’altronde, fare letteratura significa confrontarsi con l’altro, che è il testo, e con gli altri, nel dibattito che sorge attorno al testo stesso, palestra di democrazia e di idee. Ecco, Reality fornisce spunti di riflessione calzanti ed interessanti sul tema della cittadinanza attiva, sulla società in cui siamo immersi, liquida e multiforme, ancora troppo schiava del denaro, dio di metallo, come lo chiama l’autore, e perfettibile sotto tanti aspetti. Si può e si deve riflettere su cosa è successo, a scuola soprattutto, tempio della conoscenza riaperto tra mille sacrifici, e in particolare in un tempo sospeso come quello che viviamo oggi, a distanza di sette mesi da quello che Genna chiama incipit vita nova - per non chiudere gli occhi, ancora, e per guardare, vedere tutto, scansare il baratro su cui ci affacciamo, barcollanti e incerti, ora come allora. Note 1 Un «movimento continuo che si riflette nella struttura stessa del racconto, il quale si distende in una forma neopicaresca». Cronaca picaresca del tempo virale, Paolo Lago. https://www.carmillaonline.com/2020/08/17/cronaca- picaresca-del-tempo-virale/?fbclid=IwAR0bpKGCLy2qi-f0NO9-wS81_AOtNvBlwjWPs9InpZKJ0m5bNH3OHF3F934 2 Non chiederci la parola, Eugenio Montale, da Ossi di seppia, Mondadori 3 Perdita dell’aureola, Charles Baudelaire, da Lo spleen di Parigi 4 «Al di là degli stagni, delle valli e dei monti, / al di là dei boschi, delle nuvole e dei mari, / al di là del sole, al di là dell’aria, / al di là dei confini delle stellate sfere». Élévation, Charles Baudelaire, da I fiori del male 5 Il castello dei destini incrociati, Italo Calvino, Mondadori 6 In limine, Eugenio Montale, da Ossi di seppia, Mondadori 7 La nuvola in calzoni, V. Majakovskij (1915) 8 ibid. 9 ibid. 10 Pandemia e sguardo della deriva. Adriano Masci su il Manifesto, 26 Luglio 2020 https://ilmanifesto.it/pandemia-e-sguardo-della-deriva/ 11 Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Roberto Saviano, Mondadori 2006 12 ibid. 13 Noi non sappiamo quale sortiremo... Eugenio Montale, da Ossi di seppia, Mondadori 14 Il primo romanzo italiano sul Covid-19 è bellissimo. https://www.esquire.com/it/cultura/libri/a33570444/genna- reality-covid/ 15 ibid. Il titolo del nuovo romanzo di Claudio Panzavolta edito Rizzoli deriva dalla frase posta in esergo, firmata da Alice Munro in «La vista da Castle Rock»: «Al passato si deve tornare da lontano.» Quello di Munro è un libro pubblicato in Italia da Einaudi tredici anni fa, circa trecento pagine in cui l’autrice ricostruisce le vicende che hanno coinvolto un ramo della sua famiglia, scavando fra archivi e ricordi, e partendo, per l’appunto, da lontano. Perchè per avvicinarsi al passato senza farsi male - senza fare male al cuore - serve un punto di vista che garantisca straniamento, che renda le figure più nitide, ridefinendole nel loro contesto.
Come Munro, Panzavolta decide di trasformare una storia di famiglia in un romanzo, in una commistione equilibrata ed elegante di elementi reali ed inventati, prendendosi spazio e tempo per approfondire e caratterizzare con cura ed estremo garbo i suoi personaggi, che poi sono i suoi parenti, i suoi affetti. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad un libro che è, dunque, la storia della famiglia dell'autore, una storia semplice raccontata «per» ricordi, frammenti, schegge (l’idea dell’autore, a quanto leggo, era quella di creare una struttura di racconti leggibili anche singolarmente) provenienti da un tempo lontano che non smette però di parlarci. Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, né nell'irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l'anima non te li mette contro. Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d'estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d'ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti Cos’è un’ecoschiappa? È un animale esotico? Un mostro tremendo? Un insetto velenoso? O è solo una strana idea? Se vuoi capire meglio di cosa stiamo parlando sfoglia le pagine, ma attenzione: le Ecoschiappe sono contagiose!
L'ora dei cani è una raccolta di racconti brevissimi che pullulano di voci diverse, vite diverse e destini paralleli, uniti da un elemento in comune: la compagnia di un amico a quattro zampe. Dado ha Oscar, Alberto ha Pi(n)cio, Monica ha Alleluia, Lara ha il suo padrone vegetariano, Corrado ha Diana, Beppe ha il suo Ringo, Walter ha Zero; poi ci sono Caterina con Nusca, Antonio con Argo, Concetta con Pietro il pincher antipatico. A guardarli dall'alto, il loro è un insieme multicolore. Al centro del girotondo ci sono i loro cani, che scodinzolano, abbaiano, si leccano il pelo a vicenda: è una festa. ... Perchè la vita è una festa. La bellezza di questo libro piccino sta nella capacità spontanea dell'autore di dipingere con toni genuini, semplici e sgargianti le mille sfumature del mondo che ci circonda, le pieghe più ironiche e nascoste del quotidiano. I protagonisti sono uomini e donne veri, rappresentati nelle loro contraddizioni e nel loro quotidiano oscillare: recitano le loro vite, i loro desideri, le loro frustrazioni. Sono attori bravissimi, perchè impersonano loro stessi.
L'ora dei cani è, in questo senso, una rappresentazione moderna e senza fronzoli del barocco concetto di "gran teatro del mondo", che descriveva il mondo come un grande, gigantesco, colorato palcoscenico su cui si intrecciano le storie degli attori. Questi sono attori ordinari che ci assomigliano, nelle loro peculiarità e stranezze. L'ora dei cani nasce da una riflessione dell'autore intorno al suo rapporto con il suo cane, Oreo: c'è un video molto simpatico, questo qui (https://www.youtube.com/watch?v=nKUpSVEefig) in cui Albesano compie un gesto tenerissimo: si accovaccia piano e chiama il suo Oreo, dal pelo scuro e dagli occhi buoni. In quel gesto, così quotidiano e istintivo, è racchiusa l'essenza di un legame bellissimo e naturale, sincero e schietto, che possono capire due categorie di persone: chi ha amato un cane e chi ha letto questo bel libro, che tanto sa dirci sulla bellezza di avere un animale con cui condividere l'ora dei cani. Link per l'acquisto: https://bookabook.it/libri/lora-dei-cani/ Video promozionale dell'autore - https://www.youtube.com/watch?v=OZ8GIc_VOIM Trama. Verso sera, all’incirca alle diciannove, alla fine della giornata di lavoro, e poi ancora dopo cena, un po’ sul tardi, quando sono terminati i programmi televisivi di prima serata, quella è l’ora dei cani. Il momento in cui i padroni portano il loro animale al parco per fargli fare i bisogni e per lasciarlo libero di correre dopo che è rimasto chiuso in casa, forse da solo, tutto il giorno. È anche l’ora dei loro padroni, perché quella di portare fuori il cane è la scusa per fare un po’ di movimento e per incontrare altre persone, con le quali si è stretta amicizia, e fare due parole. Basta prendere un parco di una qualunque città e lì, due volte al giorno, prima di cena e prima di andare a dormire, si svolge una rappresentazione teatrale. Il palcoscenico sono quelle quattro aiuole che chiamare parco è un po’ pomposo. Ma c’è l’erba, ci sono le piante, ci stanno le panchine… Sicuramente per i cani e per i loro padroni quello è il parco, anche se sono solo un centinaio di metri salvati dal cemento e circondati da strade trafficate. Verso le diciannove inizia a presentarsi qualche attore. A dire il vero qualcuno è già arrivato prima, perché aveva poi fretta di andare a casa a mettere su qualcosa per cena. Ma noi consideriamo le diciannove come inizio dello spettacolo. Ognuno dei personaggi principali è costituito da due attori: un padrone e un cane, che di rappresentazione in rappresentazione non cambiano mai. Recitano le loro vite, i loro desideri, le loro frustrazioni. Sono attori bravissimi, perché impersonano se stessi. Andiamo anche noi una sera qualunque in questo parco e assistiamo a una rappresentazione di questo spettacolo che si chiama vita. L'autore, Sergio Albesano, è giornalista, storico e scrittore. È nato nel 1958 a Novara. Ha pubblicato i libri Fra le rovine di me stesso (1983), Storia dell’obiezione di coscienza in Italia (1992), Le vie del male (2001), Genesi (2011). Ha curato inoltre l’opera collettiva Le periferie della memoria (1999). Collabora con alcune riviste. La scrittura di questo libro, dedicato al rapporto fra umani e cani, gli è stato ispirato dal suo cane, che si chiama Oreo. Ringrazio la casa editrice per la copia omaggio del libro. Vi ho parlato qualche settimana fa dei bellissimi volumi curati da RBA sulle Grandi Donne della nostra storia. Io ne ho letti tre: Maria Montessori, Frida Kahlo e Marie Curie… e ve ne parlo con grande piacere.
RBA dedica alle Grandi Donne della nostra storia un’intera collana, per riscoprirne il valore storico e sociale, per non dimenticare le loro uniche battaglie, per lasciarci ispirare dalla loro tenacia. Una collezione di monografie accurate ma semplici, scorrevoli e narrative che raccontano le grandi scienziate, attiviste, avventuriere, scrittrici della nostra storia con dedizione, ci presentano le loro vite, le loro fragilità, le loro passioni. Inseguirono con determinazione i loro sogni. Scardinarono i canoni della loro epoca. Donne di epoche diverse, di diversi ambiti e condizioni, che sfidarono il destino con coraggio e cambiarono il corso della storia per sempre. Le loro vite, tanto appassionanti quanto singolari, sono oggi grande fonte d’ispirazione. È possibile abbonarsi alla collana ad un prezzo eccezionale cliccando su questo link: https://www.legrandidonne.it/?utm_source=ilgrandeteatrodelmondo&utm_medium=influencer Qui riassumo il calendario delle uscite:
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