La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede. (Pier Paolo Pasolini, Dai diari 1943-1953) Città sommersa di Marta Barone è la storia di un padre, Leonardo, e di un ragazzo, L.B., che, per dirla con Pasolini, «bestemmia / accarezza le gioie… nessuno sa i suoi calcoli di luce». L.B., lo sfuggente personaggio che Barone mette al centro di questo libro, è stato un militante di sinistra extraparlamentare, membro di «Servire il popolo», partito marxista-leninista che «assomiglia più a una setta» negli anni dei disordini politici che si sono tramutati in violenza. Ha avuto una «decent life» per dirla con le parole di un suo amico («Leonardo ha avuto la vita che voleva. È sempre stato dove voleva. Ha continuato a praticare la democrazia quando della democrazia non fregava più niente a nessuno» / «Lui è stato fino all’ultimo, proprio fino all’ultimo, con quelli con cui doveva stare»). Leonardo Barone, invece, è il padre di Marta: lo è diventato quando aveva quarantadue anni e lo è stato per troppo poco tempo. Marta ha perso suo padre nel giugno del 2011: con lui aveva sempre avuto un rapporto complicato («per non dire conflittuale») fatto di molti silenzi. D’altronde, scrive, «Quando siamo giovani ci limitiamo a constatare che i nostri genitori esistono, e non ci interessiamo molto di loro» e ancora «gli adulti sono misteri insondabili; gli adulti vanno e vengono, i loro visi appaiono e scompaiono». Marta e suo padre hanno vissuto in case diverse per oltre vent’anni: di lui, della sua lunghissima vita sapeva davvero poco: era certa che fosse stato medico, poi professore universitario. «Non capivo che lavoro facesse, perchè avesse ricominciato a studiare», da bambina gli zampettava attorno, avvolta nella sua luminosa ombra densa di vita ed esperienze, ignara di quello che ci fosse stato prima di lei. Nel 2013, in dicembre, succede una cosa: Marta trova la memoria difensiva che l’avvocato di suo padre aveva presentato in Cassazione nell’ambito di un processo in cui era coinvolto per partecipazione a banda armata. Non è una sorpresa, almeno non del tutto: Marta sapeva che suo papà era stato arrestato con l’accusa di essere un terrorista, che alla fine era stato assolto con formula piena e che non era mai stato un terrorista, per davvero. Ma il ritrovamento di queste carte è un fucile che le esplode in faccia, dice, perchè inizia ad emergere «dalle brume del burocratese» un personaggio che le appare sconosciuto, completamente estraneo. È L.B. e non più Leonardo, identificato con le sue iniziali perchè è ormai un personaggio letterario (deve essserlo), lontano nel tempo, di cui si può provare a raccontare la storia, frammentata e incerta. Il ritrovamento della memoria difensiva è per Marta uno straordinario punto di svolta, ma non ci viene presentato come tale: nemmeno lei se ne accorge. È come se ci fosse «qualcuno in lontananza che agitava un cartello su cui era scritto qualcosa che sapevo importante ma che non riuscivo a leggere, per poi sparire subito nel buio». Si accende una miccia ma il cambiamento è impercettibile: Marta inizia a farsi domande e decide che vuole andare in fondo, vuole immergersi nel passato di suo padre per provare a capire. Ecco: immergersi. Immergersi nella città «sommersa». (E noi lettori, identificati in un «tu» a cui l’autrice spesso si rivolge, ci immergiamo con lei.) In questo libro la parola «città» torna spesso: c’è la città di pietra, senza fine, in cui il ragazzo corre la notte in cui il suo migliore amico viene brutalmente assassinato; c’è la città dei reietti, nascosta, la città traditrice, amata, «perché, città, mi hai respinto?». Mille città, che poi sono una sola, la stessa: Kitež. Kitež è (era?) situata sulle sponde del lago Svetlojar, a nord del Volga. «Quando i tatari arrivarono per conquistarla attraverso un sentiero segreto rivelato da un traditore, la città s’inabissò nel lago e scomparve lentamente di fronte agli occhi stupefatti degli invasori. L’ultima cosa che brillò sull’acqua prima di affondare insieme a tutto il resto fu la cupola dorata della chiesa. Per dieci giorni e dieci notti i tatari cercarono di ritrovarla, ma invano. Si narra anche che Kitež viva ancora, sott’acqua, segreta, con tutti i suoi abitanti. E può capitare ai viandanti fortunati, dicono le cronache tarde degli scismatici, di intravederne i contorni bianchi e oro sotto la superficie del lago, e di udire il suono sordo delle sue campane.» (P.104) La vita di L.B. è «la prima Kitež» che abbraccia e stringe forte «un’altra Kitež. La mia vita», la vita di Marta, che ricostruendo il passato recupera il suo corpo presente. Marta fa domande, interroga gli uomini e le donne che hanno conosciuto suo padre, nel tentativo di ricostruirne le vicende personali e politiche. Il quadro è nebuloso: l’autrice cerca di ricomporre la sua storia rincorrendola negli stravaganti intrecci con i fatti di cronaca che hanno sconvolto il nostro paese negli anni Settanta (i fatti di Valle Giulia, l’ «involuzione della politica nella lotta armata», le lotte della sinistra extraparlamentare, le occupazioni, i sogni e i deliri collettivi dei compagni). Città sommersa abbraccia una stagione politica «ancora da metabolizzare» nel nostro paese, come scrive Raffaele Donnarumma, la cui rappresentazione letteraria «ha risentito, complessivamente, di posture contraddittore: formazioni di compromesso […] tra bisogno di raccontare, capire, giudicare e resistenza al racconto esteso, alla comprensione piena, al giudizio profondo» e diventa un libro indimenticabile proprio perchè non nasce per ricostruire scientificamente gli anni di piombo né per descriverli in maniera sterile, ma per ricostruire un passato familiare, per dipingere uno scenario intimo che va via via allargandosi per comprendere un quadro più ampio. E ancora, torna PPP: «Nel mondo si rivive / il gioco che rasenta un altro mondo» il microcosmo familiare in cui si sviluppano gli avvenimenti di quella che Barone chiama «una famiglia, e per estensione un’infanzia, bizzarra e felice; una foresta di adulti» sfiora per la breve durata d’una vita l’altro mondo, quello emerso (o sommerso?) Che «si allarga a dismisura» - il mondo delle città, delle fabbriche, della povertà, dei migranti, della lotta, della comunanza coi compagni. E quindi anche dell’amore, delle illusioni, delle vane speranze. Marta Barone racconta la vita perduta d’un uomo in un tempo dimenticato con estrema tenerezza, consegnando al lettore un libro costruito per immagini letterarie straordinariamente evocative che si aggrappano al cuore e invadono gli occhi e la mente (garantisco, non dimenticherete mai il ragazzo che corre «nella città di pietra», pagina 279). È lo sforzo letterario di una figlia che si mette in ascolto, che non vuole scrivere «un atto di perdono, di riconciliazione, una specie di riscatto dei comunisti “buoni”, un’apologia di mio padre, una sorta di saggio sugli anni settanta, cose del genere» ma prova solo a ritrovare il suo passato, per «un atto di interesse». Una figlia che si accorge, alla fine del suo lungo viaggio a ritroso, che «cercando di ricostruire mio padre ero stata obbligata a volgermi all’indietro, a ricordare cose che credevo già di ricordare, a tentare di ricordare cose cancellate». C’è una pagina precisa in cui ho sentito il mio cuore spezzarsi. È stata tutta colpa di questo pezzettino qui: «Ma più che senso di colpa, quello che provo è altro. Una singolare nostalgia: più che del passato, di cose mai successe, di cose non ancora successe, di cose che forse avrebbero potuto succedere. Una nostalgia al futuro anteriore. Una nostalgia del non-più-possibile. Forse un giorno saremmo riusciti a parlarci. Forse, almeno una volta, avrei potuto fargli una carezza.» E ancora, torno a Pasolini: «La conoscenza è nella nostalgia. / Chi non si è perso non possiede.» Una nostalgia che per Marta Barone (che si è persa nei meandri del passato, e dunque possiede, finalmente, «una nuova linea, una nuova verità») è un futuro irrecuperabile ed impossibile. «Città sommersa» non è un romanzo, non è una biografia, non è un memoir, non è un saggio. È un patchwork: una coperta calda e colorata fatta di pezzi di storia donati da persone che non sono mai L.B, e che per questo è difficile da realizzare. C’è un intervista in cui Marta racconta (https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2020/02/Marta-Barone-Citt-sommersa-4b62ab18-f4b9-40c6-8201-41fe42d3c5c6.html) «l’impossibilità di recuperare una memoria esatta» che è «la lacuna interna, tragica, intorno a cui giro, su cui pattino in qualche modo». È una ricerca affannosa, questa ricerca dei «contorni bianchi e oro di Kitež», ormai sommersi, una caccia al tesoro che il lettore vorrebbe non finisse mai, perché sa incantare e affascinare. C’è un Bell’articolo di Elettra Bernacchini su Minima et Moralia (http://www.minimaetmoralia.it/wp/citta-sommersa-marta-barone-ragazzo-corre-nella-notte/?fbclid=IwAR1yBcJk8t65jwKz2KQYHE36c32lGnu7lvj-7WvL0gt2ksNbW-JVVhE01RQ) in cui l’autrice fa una proposta che accolgo, da studentessa, e che mi riprometto di rivolgere a mia volta, a tempo debito, alla mia insegnante di storia: Bernacchini dice «Città sommersa andrebbe letto a scuola: alla fine dei conti è un bellissimo diario, privato e pubblico al tempo stesso» che apre «in questo mondo un piccolo varco anche per tutti coloro che, senza, farebbero molta più fatica ad entrare.» Città sommersa è un libro che offre uno sguardo attento e dolcissimo su un tempo perduto, che affascina e suggestiona. Lo stile di scrittura semplice e piano di Marta Barone potrebbe far innamorare tanti, e aprire, in punta di piedi, piccoli spiragli di luce in un passato molto prossimo. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato. (Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci)
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