La città dei vivi: una mappa del labirinto. La catabasi di Nicola Lagioia nell’Averno romano8/11/2020 Ibant obscuri sola sub nocte per umbram perque domos Ditis vacuas et inania regna: quale per incertam lunam sub luce maligna est iter in silvis, ubi caelum condidit umbra Iuppiter, et rebus nox abstulit atra colorem. Andavano senza luce nella notte solitaria, attraverso la tenebra, attraverso le case vuote, i regni deserti di Dite: come fosse un viaggio per boschi con una luna incerta che filtri appena i suoi raggi avari tra il fogliame, quando Giove ha sommerso il cielo d’ombra opaca e la notte ha privato di colore le cose. (1) Su «Il menabò 5», nel 1962, comparve un articolo di Italo Calvino, co-fondatore della rivista stessa. Si intitolava «La sfida al labirinto» (2): era una lunga e densissima riflessione dell’autore sul legame fra letteratura e mondo, o sulle risposte che la letteratura avrebbe potuto dare agli avvenimenti che hanno sconvolto il cosmo «dalla prima rivoluzione industriale» in poi. Sfruttando il titolo di un libro di Robbe-Grillet (3), Calvino si soffermava sul concetto di realtà come labirinto (4): «Questa forma del labirinto è oggi quasi l’archetipo delle immagini letterarie del mondo (…) una configurazione su molti piani ispirata alla molteplicità e alla complessità di rappresentazioni del mondo che la cultura contemporanea ci offre». (5) La «letteratura del labirinto gnoseologico-culturale», scriveva allora Calvino, «ha in sé una doppia possibilità»: l’autore può scegliere di assumere un’attitudine «oggi necessaria per affrontare la complessità del reale», rifiutando visioni semplicistiche e banalizzanti perchè «quello che ci serve è la mappa del labirinto, la più particolareggiata possibile». Dall’altra parte lo stesso autore può scegliere di abbandonarsi al fascino del labirinto, rappresentando «l’assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo». Ancora, Calvino ha premura di sottolineare come resti fuori da questo discorso «chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alla loro difficoltà». Quid nunc? Cosa può fare, dunque, la letteratura? Può decisamente provare a suggerire una via d’uscita, «anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro». «La città dei vivi» è l’ultimo libro di Nicola Lagioia, pubblicato da Einaudi in Ottobre. È la ricostruzione del delitto Varani, un omicidio cruentissimo che quattro anni fa scosse profondamente l’opinione pubblica. Due ragazzi normali ed insospettabili, Manuel Foffo e Marco Prato, figli rispettivamente di un imprenditore e di un manager culturale (figli, per associazione d’immagini, della decadente borghesia della «città di morti popolata da vivi») torturarono e uccisero brutalmente un loro coetaneo, Luca Varani, ragazzo umile figlio di ambulanti, al termine di una serata a base di alcol e cocaina consumatasi in via Igino Giordani, quartiere Collatino, nell’appartamento di Foffo. Fu un fatto terribile, sconvolgente, una ferita profondissima e lacerante, un delitto efferato apparentemente privo di movente: al momento della confessione, Foffo e Prato furono incapaci di spiegare il perchè di tanta scellerata cattiveria. Foffo nemmeno conosceva Varani (al padre non seppe dire nome e cognome della vittima) a differenza di Prato, che invece l’aveva già incontrato in un’occasione. Come si erano trovati nello stesso appartamento, in quell’infelice 4 marzo? Cos’era successo davvero? Chi erano questi ragazzi? Nella prima parte del romanzo, il narratore-Lagioia non si palesa: lascia che parlino i fatti e i protagonisti, ritagliandosi ampio spazio per descrivere con grande potenza e perizia letteraria la città di Roma - che diventa così un personaggio vero e proprio, con quella sua contraddittoria, lucente bellezza che riempie gli occhi e stordisce un po’ il cuore, annebbia la mente. Roma la menefreghista, Roma sotto la pioggia, «sembra stia per crollare su se stessa»; Roma «in cui è sempre lecito farsi gli affari degli altri», e poi Roma la città senza confini, dipinta in una carrellata cinematografica a pagina 75, «Superato il Vaticano, si viaggia sull’Aurelia. Dopo qualche minuto la luce si fa chiara, le abitazioni si diradano, la vegetazione prende il sopravvento sull’opera dell’uomo. (…) In molti, a questo punto, credono che Roma sia finita. Eppure pian piano la città si riforma». Dove finisce questa città tormentata, eterna, dove «tutto è umano e tutto si corrompe»? Città-labirinto, città-meandro, città senza chiavi… Lagioia emerge nella «Parte seconda. Il pelo dell’acqua» (6). È interessante osservare il divenire dei sottotitoli: si passa da «il pelo dell’acqua» a «il coro» a «in fondo al pozzo». È questa la cronaca del progressivo scivolare dell’autore nella storia. E torniamo a Calvino, che un tempo disse «guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale» (7); ecco, nel libro di Lagioia, invece, lo scrittore prima galleggia sul pelo dell’acqua, poi fa parte del coro di voci che provano a ricostruire la vicenda, addirittura con un contributo autobiografico, poi precipita «in fondo al pozzo», discende all’Averno. L’intellettuale Lagioia vive nella realtà, naviga nel quotidiano, si muove, parla, inciampa, cade persino, e per questo ci consegna una storia autentica, frutto di una ricerca appassionata, vissuta: vuole capire. Lo sforzo dell’autore (e della letteratura) è uno sforzo intenso. D’altronde, dice Lagioia, «Scrivere è un’esperienza conoscitiva. L’oscuro mi aiuta a capire meglio come siamo fatti» (8) e questa difficoltosa catabasi, questa discesa agli inferi, è come «avere immerso una mano nello Stige e sentirla ancora gonfia d’ombra»: «un gran buio, e nulla più». (9) Uno degli elementi che più colpiscono del caso Varani è l’interesse che i più mostrarono nei confronti della vittima. Luca Varani si drogava? Si prostituiva? Era «una marchetta»? Perchè ci interessava saperlo? Lagioia si chiede come mai la narrazione della «vittima colpevole» abbia successo. Colpa di chi la raccontava? «Mi sforzavo di capire, ma era come guardare in un pozzo dopo il calar del sole»: Lagioia riflette sul male, arriva a pensare che fosse proprio il «delitto Varani», nella sua intrinseca malvagità, a distorcere le cose, a divorarne la razionalità; sfiora l’abisso, ne accarezza i contorni, incontra il male «che ci irretisce», che ci confonde. Poi l’approdo: «Bisognerebbe amare la vittima senza sapere nulla di lei». E i carnefici? «Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo». Ecco, uno degli obiettivi di questo libro è anche riflettere su questa specie di “Banalità del male”. «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice? È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo». È un concetto che al lettore è chiaro già da pagina 11: Lagioia racconta la vicenda di Mario Angelucci, cronista radiofonico, abitante nello stabile di Via Igino Giordani 2, che aveva saputo dell’omicidio Varani quando aveva riconosciuto in tv il palazzo in cui abitava. Subito Angelucci s’era abbandonato al panico: temeva che suo figlio fosse coinvolto nel delitto. Una settimana dopo i fatti, commentando l’accaduto con dei colleghi, questi gli rivolsero l’interrogativo chiave della riflessione dell’autore: «Ma mentre stavi nel panico hai creduto che tuo figlio fosse il ragazzo morto, o l’assassino?». Non si conosce mai davvero nessuno, perchè «non si arriva a conoscere tutto nemmeno di se stessi». «La città dei vivi» è la storia di due famiglie benestanti, i Foffo e i Prato, confuse e frammentate, «non c’è limite alle cattive notizie che si possono venire a sapere sui propri figli», e di una terza famiglia, i Varani, famiglia umile, distrutta dal dolore; storia di padri e di figli fra cui «si addensa aria di tempesta», storia di genitori che con difficoltà fanno i conti con le luci, le ombre, le grandi debolezze dei loro ragazzi. Storia terribile ed incredibile («Se avessi voluto inventare una storia del genere non ci sarei mai riuscito» (10) dice l’autore, perchè, racconta, ancora, «Solo la realtà si può permettere il lusso di essere inverosimile» (11) ) che costringe il lettore ad interrogarsi, a passare «da un labirinto all’altro». Quella di Lagioia è una letteratura che non giudica («per quello ci sono i magistrati» ha detto in un dialogo con Giordano Meacci) ma che prova a comprendere: non ha risposte, non confeziona certezze. È una letteratura che «parla per chi non può farlo», e riflette sulla realtà. Nicola Lagioia scrive un libro che è una «mappa del labirinto», dove il labirinto è l’insieme degli ingranaggi e dei meccanismi, un po’ inquietanti, che regolano il nostro quotidiano, oggi come quattro anni fa. E sceglie così di assumere quell’attitudine che Calvino già nel 1962 riteneva «necessaria per affrontare la complessità del reale», facendo letteratura per generare domande. Un libro bellissimo e terribile che non fa dormire, abitato di vittime e carnefici che si materializzano attorno al lettore. Un testo denso e molto lungo che si fa leggere con grande facilità: paradossale ed inquietante, in fondo, visto l’argomento trattato. Una prova di letteratura ammirevole che è poi una fotografia chiara e nitida del presente, dell’inferno e degli inferni dei viventi. E, per chiudere il cerchio con il Calvino delle Città invisibili, «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» (12) Note
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