Si chiama Prince Ani Guibahi Laurent Barthélémy, ha quattordici anni e vive in Costa d'Avorio, ad Abidjan, con il suo papà e i suoi fratelli. È un figlio pieno di vita, pieno di entusiasmo, racconta il suo papà Marius, sempre colorato e allegro. Studia molto, è curioso, vuole imparare. A scuola ha dei buoni voti (tranne quest’anno – quest’anno la sua media si è un po’ abbassata, il papà si preoccupa, Prince gli dice di star tranquillo.) Gli piace il calcio, come piace, d’altronde, a tutti i ragazzini del mondo. Sempre diligente, attento, rispettoso e cordiale. La mattina del 6 gennaio 2020 saluta il suo papà, sua sorella, esce di casa per andare a scuola, ma prende una strada diversa dal solito. Lo fa in maniera convinta, senza nascondersi dagli sguardi dei vicini. Si reca in aeroporto – di qui inizia la ricostruzione dei fatti, un po’ frutto della logica – e aspetta fino a sera, quando si infila nel vano carrello di un Boeing 777 AirFrance diretto verso Parigi. Prende la rincorsa, si avvinghia al carrello, chiude gli occhi, forse, e inizia il suo viaggio. Prince Ani Guibahi Laurent Barthélémy viene ritrovato morto la mattina del 7 gennaio all’aeroporto Charles de Gaulle. Non viene subito riconosciuto, è un bambino ‘di una decina d’anni’, minuto, piccolo. Ce lo dice la compagnia aerea, con un comunicato che ha un non so che d’alieno: “Sembrano le parole scelte per via di una sorta di accortezza per non turbare il lettore, una specie di buon educazione per preservare dal dolore, invece é solo un orrida astuzia per gestirne il drammatico impatto mediatico, non si pronuncia la parola bambino”, dice Roberto Saviano. Quando vengono informati i genitori il riconoscimento viene condotto grazie ad uno zainetto rinvenuto all’aeroporto. Il 10 gennaio il Comandante dell’aeroporto contatta il numero di telefono nel foglio di scomparsa diffuso: “siete voi?” “sì”. Fa andare il padre da lui: gli mostra uno zainetto che contiene uncambio di vestiti e la divisa della scuola, pantaloncini e maglietta gialla, profili verdi, tessuto sintetico. “Riconoscete questo?”. Sono quelle di Ani Laurent. “Sì, questo è lo zaino di mio figlio”. Ok, bisogna aprirlo. “D’accordo, signore, suo figlio era dentro la ruota…”. Ingiustizia, rabbia, lacrime, dolore. Marius non capisce, non vuole capire, e si aggrappa ad ipotesi fantasiose, fiabe che salvano il suo bambino dall'abisso. Invece Ani non c'è più, non tornerà a casa, non potrà salvarlo. Chiara Alessi in quei giorni si trova ad Abidjan, per un viaggio programmato tempo prima - è il destino, santo cielo, il destino - e pensa che sia importante raccontare questa storia. Va a trovare la famiglia di Prince, un po' imbarazzata e goffa di fronte al loro dolore. Viene accolta in silenzio da una famiglia lacerata, senza un corpo su cui piangere - non sono furibondi nè scandalizzati, solo silenzio in questa lunga notte. Non accusano nessuno, hanno paura, nuotano in un mare di domande. Non hanno visto il corpo, non c'è stata un'autopsia, solo un rocambolesco riconoscimento. "Lei ci può aiutare a riavere la salma?", le chiedono. Chiara risponde di sì, e fa loro una promessa, "un impegno, un imperativo, un vincolo, da questo momento": "insieme saremo forti", riporteremo il corpo di Prince, il corpo del figlio, a casa, per un ultimo, lunghissimo abbraccio che durerà per sempre. Prince è tornato a casa nel marzo 2020, dopo un lungo e difficile viaggio. La battaglia di Marius e Chiara in nome di questo figlio dimenticato, ormai invisibile, è stata dolorosa. Così, per raccontare questa storia, è nato un libro. Per Prince, per amore. Un libro piccolo piccolo e denso di lacrime e ingiustizie, che costringe a buttar giù bocconi amari e ad arrabbiarsi, anche, molto, perchè ogni parola è un colpo al cuore. Io l'ho letto in un paio d'ore, e non so come scrollarmelo di dosso. Forse è così che deve andare - non deve lasciarmi mai. Ho pensato che Prince se n’è andato e non è giusto, era solo un ragazzino, in volo, ed è anche mio fratello, sempre lo sarà, rannicchiato in un angolo del cuore – la sua storia la porterò con me, per non dimenticare mai. Me lo immagino mentre sogna una vita nuova, disegnandola magari coi colori più belli che potesse immaginare; che chiude gli occhi e stringe i denti, spera di arrivare sulla sua isola felice. Prince è il simbolo dei figli che non siamo riusciti ad amare, delle grida d’aiuto che non siamo riusciti ad ascoltare, dei cuori coraggiosi che abbiamo lasciato soli a costruire un futuro che non avranno mai. Se ne sono andati anche loro, nascosti nei carrelli degli aerei, come Yaguine e Fodé, ormai vent’anni fa, con la loro lettera ai signori membri e responsabili dell’Europa. Vent’anni di vuoto, di sofferenze, di diritti negati a bambini figli della luce, di ‘guerre, malattia, il cibo etc.’, di ‘mancanza di istruzione e di insegnamento’, di richieste spaccacuore. Un dolore immenso, una sensazione di terribile vuoto, di incredibile impotenza. Come si fa? Cosa posso fare, io? Avrei voglia di abbracciarli forte, tutti, questi fratelli miei, dir loro che mi dispiace, che è colpa nostra (‘vi supplichiamo di scusarci di aver osato scrivervi’ – vorrei dirvi che vi supplichiamo di scusarci di non avervi ascoltati). Oggi mi incido sul cuore la preghiera di Marius, il papà di Ani, la sua grande lezione di speranza Vienimi incontro in tutti i passi che farò, vienici incontro in tutti i fallimenti, non permettere che tutto ciò che faremo per renderti omaggio sia vano. (…) Ti chiamavano Prince! Oggi sei diventato un vero principe in tutto il mondo. Il mondo intero parla di te. Non esserne addolorato e fa sì che tutto quello che stiamo facendo per onorare la tua memoria non sia vano, in alcun modo. Come un inno, voglio solo dirti, Prince: perdonaci. Perdonaci tutti. Ecco, mi auguro che queste storie, le loro storie, che poi sono anche le nostre, trovino più spazio, non vengano dimenticate - sono le storie di un’umanità che è un groviglio di sogni e speranze, che vuole crescere, e diventare migliore. Mi auguro che non ci siano più silenzi, che questi silenzi siano voci che ci risveglino, perché abbiamo bisogno di non chiudere gli occhi mai - abbiamo bisogno di sapere, di spalancarli, gli occhi, di fronte all’orrore. Grazie Chiara Alessi per la sua dolcezza. Grazie Marius, per la sua grande umanità, il suo coraggio. Le sue parole dense di dolore hanno tanto da insegnarci. Non dimenticherò, non dimenticheremo. Per Prince, che è anche mio fratello. PRINCE, IL CORPO DEL FIGLIO è edito People Pub, lo trovate qui
«Prince Ani Guibahi Laurent Barthélémy è un ragazzino, con un nome e una foto e una famiglia e una casa e un Paese e un’età. Non è vero che la sua storia è la storia di tutti: la sua storia è la sua unica storia, la sua storia è la sua storia unica. E, in mezzo a tutte le altre, è l’unica che qui possiamo raccontare. Che io devo raccontare. Anche per chi non la avrà mai, una storia propria, e non avrà mai un nome, un cognome, una foto.» Chiara e Marius raccontano quello che ogni giorno leggiamo sui giornali ma che non abbiamo ancora capito. Desideri, speranze, follie di un mondo guasto, ingiusto, diviso tra chi può tutto e chi quasi nulla. Come se fossimo umanità separate. Umanità che invece si possono incontrare, tra Abidjan, Parigi e Milano, e che condividono una storia e una parte di destino. Chiara Alessi (1981) è giornalista e saggista. Si occupa di progetti culturali, e ha pubblicato per Laterza e Utet Libri.
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