Abito la Possibilità - una casa più bella della Prosa - più ricco di finestre - E superiore - per porte - Con stanze come cedri - Impenetrabili all’occhio - E per tetto indistruttibile Gli spioventi del cielo - Per visitatori - i più belli - Per lavoro - questo: Divaricare le mie mani sottili Per raccogliere il paradiso *** Portare la nostra parte di notte - La nostra parte di aurora - Riempire il nostro spazio di felicità Il nostro spazio di risentimento Emily Dickinson (1) Qui https://www.facebook.com/museomaxxi/videos/3460772084033849 trovate un’intervista meravigliosa fatta da Chiara Valerio a Francesca Mannocchi durante un appuntamento online di Libri al MAXXI, iniziativa organizzata dal Museo Nazionale delle arti del XXI secolo. (Peraltro un’imperdibile Valentina Lodovini legge alcune pagine di Bianco è il colore del danno, dandone un’interpretazione straordinaria). «Quando poi i libri sono veramente molto belli, succede questa cosa: tu diventi quello che scrive», dice a un certo punto Valerio. Più in là, Mannocchi aggiunge: «L’esercizio antropologico era far sì che chi legge potesse trovare un pezzettino di qualcosa che gli appartiene». Esercizio riuscito, senza ombra di dubbio: in Bianco ci sono anch’io, lettrice, nipote di una Rita che ha avuto, un tempo, una Singer nera, e per tutta la vita ha cucito e tenuto insieme - una Donna buona che non si è mai lamentata e ha elargito solo e sempre grande Amore e abbracci accoglienti. La mia Rita si chiamava Olimpia, ed è andata via qualche anno fa - ma per me è «sempreviva e sempremorta», «destinata ad un’eternità intima» - e il suo sorriso buono, ricordo felice, mi è stato restituito con immenso garbo dalla penna dolcissima con cui Mannocchi scrive le pagine dedicate alla sua famiglia. Dolcissima, familiare e intima la penna. Potente, forte, chiara e necessaria la voce dell’autrice. Forse è anche per questo che Bianco è un libro straordinario: costringe alla riflessione, non lascia scampo - porta ciascuno fare i conti col guazzabuglio del proprio cuore umano, a guardarsi dentro, a mettere in fila le paure e a scrutarle in silenzio. Bianco si fa leggere in apnea e poi rimane nell’aria. In Bianco, si diceva, ci siamo tutti, perchè Bianco è il colore del danno, ma anche della luce, delle lenzuola pulite appena stese, «piegate in quattro», del letto laccato nell’hotel di Palermo, «è il colore della malattia, della morte» - è un colore che tutto abbraccia, perchè figlio della cosiddetta «mescolanza additiva» (una sintesi che usa luci colorate, una «somma di luce con luce» (2)) di tutti i colori dello spettro visibile. Scrivo per questo. Virginia Woolf ha scritto nel Novecento (3): «Appare davvero strano che la malattia non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. […] Salvo poche eccezioni, la letteratura fa del suo meglio per far sì che il campo d’indagine rimanga la mente». Ma la mente «non può separarsi dal corpo come il coltello dalla guaina o il seme dal baccello, per un solo istante» e non può, «nella sua torre d’avorio» ignorare il corpo. Poi aggiunge: non si è mai scritto di malattia perchè la lingua è inadatta a dirla. «A impedire la descrizione della malattia in letteratura ci si mette anche la povertà del linguaggio. L’inglese, che può esprimere i pensieri di Amleto e la tragedia di re Lear, non ha parole per i brividi e per il mal di testa». (4) Forse l’italiano non è tanto lontano da questa denuncia: «Ora so che la cronicità ha bisogno di un nuovo lessico per essere raccontata», scrive Mannocchi, che prova ad affrontare questo vuoto con una lingua cristallina, talvolta piegata lentamente per assecondare le curve imprevedibili della malattia (un medico conia il termine «smucchiare», dice, «la malattia ha fatto così, ha smucchiato»). «Vorrei che in quella stanza si incontrassero la non malata e la compromessa, quella di prima e la danneggiata, e inventassero una lingua nuova per tenere insieme i pezzi. Scrivo per questo, credo». In quella stanza, che Dickinson chiama Possibilità, o stanza della scrittura (il filologo Antonio Prete ha scritto: «In quella stanza, in cui, vestita di bianco, una figura muoveva ogni giorno verso lo scrittoio con passo leggero, le stagioni portavano tutti i loro colori, tutte le loro voci, e il declino, e la rinascenza.» (5)) ricca di finestre e superiore per porte - una penna, un compito: raccogliere il cielo con le mani, portare la nostra parte di notte, la nostra parte di aurora. La riflessione di Mannocchi sulla lingua è interessante, e introduce nel dibattito culturale un altro tema purtroppo spesso rimosso. «La lingua medica è prossima alla malattia ma non le è fedele». Eppure, dice Mannocchi nell’intervista citata prima: «La parola determina il mondo in cui viviamo» («Scrivo per questo»). Un fil rouge lega forse Bianco a Ludwig Wittgenstein, che ha scritto: «Il linguaggio è la raffigurazione logica del mondo»: riproduce le relazioni esistenti tra le cose, come una fotografia oggettiva. «Nominare le cose è un pezzo della terapia», ha detto l'autrice, un modo per disegnare i contorni del mondo. Malattia, politica. Il discorso sulla lingua - che è un discorso già politico perchè il linguaggio è della polis - introduce un altro tema importante. Bianco è un libro politico perchè la malattia non è del singolo, ma della comunità - e poi perchè «Dobbiamo usare politicamente la malattia della collettività per ripensarci. Che mi insegna questa malattia? Mi insegna a dire che quando non posso pagarmi una cura mi vergono. Quel sentimento si supera insieme», e forse «dovremmo imparare a prenderci cura l'uno dell'altro.» La fragilità della medicina, la retorica della lotta. Mannocchi scrive «La medicina è fragile, l’ospedale è lo spazio del potenziale». Un altro non detto della malattia, un'altra verità che si impara a proprie spese, sempre. (L'incertezza dovuta all'assenza di una cura - l'accettazione di una vita sospesa accompagnata alla fiducia nella scienza, nella ricerca, spiraglio di speranza.) Il brevissimo saggio di Woolf si conclude con una strenua difesa della condizione del malato, che «smette di essere una persona qualunque e percepisce il mondo in modo nuovo». (6) Forse questo è un punto di distanza che allontana la riflessione dell’autrice inglese da quella di Mannocchi, che invece ha detto: «Non dirò mai che la malattia è un’opportunità, che è un dono. Dico che è un forcipe, che ha tirato fuori qualcosa che scalciava, come un figlio» e in un'intervista ha aggiunto: «Io non sono malata, io ho una malattia». (7) La malattia non è una battaglia, non è retorica, «Io non voglio diventare nè un'eroina nè una vittima». Mannocchi racconta una fragilità delicata, quotidiana, che si incarna nei suoi timori di madre, nelle sue debolezze di figlia - la malattia di uno è la malattia di tutti. E abita con estrema sincerità e trasparenza la paura che suo figlio Pietro abbia una madre disabile, il doloroso incontro con sua madre e con l’irrimediabile - «Oggi invece sei madre, io sono malata e seduto a tavola con noi c’è l’irrimediabile. […] Ora possiamo chiamarci per nome. Tu a me, finalmente figlia. Io a te, così che ti battezzi, parola Madre.» Linea floreale. Roberto Longhi mi perdonerà (fossi stata una sua studentessa, destinataria del manoscritto Breve ma veridica storia della pittura italiana, mi avrebbe bocciata) se prendo in prestito una definizione da lui coniata per la pittura e la applico alla letteratura. «Spesso dallo svolgersi e dall’intreccio delle linee funzionali si formano ritmi, rispondenze di ondulazioni, che accentuate a poco a poco dall’artista vengono a formare dei puri rabeschi decorativi in cui l’antico valore vitale organico non è abolito [...] come di uno stelo incurvo dal vento, o di un’alga insinuata dalla corrente». È la descrizione di uno stile pittorico, detto della linea floreale, ma mi sembra meravigliosamente aderente a quello che Mannocchi fa, in questo libro: raccontare il fiorire di un’esistenza, il timore di sbocciare, la paura di sfiorire - così umana, così vitale, così essenziale. Bianco è un libro che mi ha dato tanto, al quale tornerò ad avvicinarmi, con garbo e in punta di piedi. Un libro necessario e bellissimo che vorrei leggessero tutti. (Durante la lettura delle pagine dedicate a Rita ho pensato a questa canzone di Vinicio Capossela. La lascio qui: Quando arrivi, quando verrai per me Guarda l'angolo del cielo Dove è scritto il tuo nome, scritto nel ferro Del cerchio di un anello Per Francesca, per me, per Rita e per Olimpia, per tutte le Rita del mondo, per le lezioni sulla vita e sull’amore che ci hanno insegnato, nel loro umile, dignitoso silenzio, e che custodiamo gelosamente in un angolo di cuore. https://www.youtube.com/watch?v=wx44rJvd7VY) Note (1) E. Dickinson, Poesie, a cura di M. Bacigalupo. Mondadori (2017) (2) R. Falcinelli, Cromorama. Einaudi (2018) (3) V. Woolf, Sulla malattia, a cura di N. Gardini. Bollati Boringhieri (2006) (4) V. Woolf, ibid. (5) Emily Dickinson, Io abito la Possibilità. Antonio Prete su doppiozero.com, 10 dicembre 2020. https://www.doppiozero.com/rubriche/4177/202012/emily-dickinson-io-abito-la-possibilita (6) Dalla postfazione di N. Gardini a V. Woolf, ibid. (7) https://www.linkiesta.it/2021/02/intervista-francesca-mannocchi/ Per ascoltare (o leggere) Francesca Mannocchi:
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