Gridare per non diventare il peso morto della storia. Anche Saviano odia gli indifferenti29/12/2020 Ma le parole, se usate appropriatamente, sembrano capaci di vivere in eterno. V. Woolf, Craftsmanship Listener, 5 maggio 1937 (1) Bisogna esporsi (questo insegna il povero Cristo inchiodato?), la chiarezza del cuore è degna di ogni scherno, di ogni peccato di ogni più nuda passione… P. P. Pasolini, Crocifissione (2) Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alle comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. N. Ginzburg «Tu sei sempre stato noto per i toni pacati, perchè scegliere di gridare?» Chiede Michela Murgia a Roberto Saviano durante un’intervista (3) in cui si presenta Gridalo, sua ultima fatica letteraria, uscita per Bompiani nel novembre scorso (pagg. 544, euro 22). Saviano, che aveva chiuso Gomorra (Mondadori) con un urlo («Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva pompare: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo!"») (4) risponde «c’è un momento in cui non puoi più proteggerti dietro le buone maniere»: è allora che il grido diventa un gesto di dissenso sentito, travagliato, voluto, perchè «se non rimane altro» allora il silenzio, l’alternativa, «è un autentico delitto contro il genere umano» (Nadazeda Mandel’statm) (5). Il grido di Saviano quindi è un movimento intellettuale, «una scelta personale, un non ce la faccio più sincero, e «nasce in un contesto in cui voglio dire basta negoziare sui valori fondamentali». Qual è il contesto di cui si parla? Quali i valori? Saviano prova a regalarci un’importante bussola per orientarci nel mare magnum dell’attualità, e lo fa con schietta e spontanea naturalezza. Scrive, in apertura, al suo ipotetico lettore (lettrice) una missiva accorata, commossa e commovente. «Parlo a te, come fossi un altro me»: immagina un dialogo con un giovane studente (o studentessa) del liceo Diaz, il suo liceo, «a te che stai cercando le stesse risposte che cercavo io». L’incipit, Mappa, mi pare alquanto promettente: è uno sguardo buono, privo di pregiudizio, rivolto ad una generazione un po’ sfigata per molti aspetti - la mia, la generazione Z, quella dei giovani rovinati che ascoltano musica violenta, seguono cattivi esempi e non avranno futuro; è una sollecitazione senza filtri e fronzoli, diretta ad un destinatario preciso (esistono ancora, quindi, gli intellettuali provano a fare politica nel senso etimologico del termine (6), esponendosi nella πόλις e proponendo idee nuove, con il desiderio di condividere il più possibile il destino comune?) Allora parlo a te, che mi stai leggendo, come fossi un altro me. Tu ora hai quindici anni, oppure ne hai sedici, o diciotto. O invece ne hai settanta, non importa. Sei un uomo, sei una donna, anche questo è indifferente, sei comunque tu, l’altro me, quello a cui gli incastri non tornano e che ha sempre la sensazione di vivere il rovescio della storia e non il suo dritto. Quante volte l’abbiamo pensato? Quante volte siamo rimasti fermi a guardare, pensando di non poter cambiare le cose? «Il pessimismo non è una virtù, ma un vizio. È il vizio degli accidiosi, di quelli che non vogliono cambiare, di quelli che vogliono solo un alibi per restare fermi, per disinteressarsi del mondo… Ma presto o tardi sarà il mondo a interessarsi a loro.» Quid nunc? Che fare? Come imparare a non rassegnarsi al pessimismo, a rifiutarne la temibile zavorra? Saviano prende il lettore per mano, lo invita al dialogo e alla riflessione attraverso esortazioni costanti, accompagnandolo con una prosa vivacissima, a metà fra la narrazione e l’inchiesta, in una splendida galleria di ritratti parlanti, che raccontano storie, dischiudono mondi, forniscono testimonianze brillanti e vivaci di resistenza civile. «Storie che voglio t’insegnino un metodo», storie che «potrebbero all’occorrenza farti da scudo. Spero persino da munizione, una munizione particolare che, quando esplode, concede vita invece che toglierla. Consideralo il regalo di un amico, di un reduce, oppure consideralo una lanterna.» Un invito: mettersi alla ricerca di. Partire, andare. E perdersi. L’unico obiettivo: «Cercare la verità, provare a credere che esista una giustizia», per mantenere «il cuore sano, consentendogli di svolgere la funzione che gli è propria: fare da guida al tuo agire. Sono le ragioni del cuore a far battere tutta la vita.» Gridalo di Roberto Saviano è quindi una mappa di vite, una mappa di battiti da imparare ad ascoltare. Ma è una mappa anomala, da usare al contrario - «per perdersi, non per trovarsi», per esplorare l’ignoto, per cercare strade nuove, imparando a prevedere le imboscate, il buio della notte densa, la paura. Una mirabile Divina Commedia senza dannati, un percorso fra destini luminosi che hanno qualcosa da insegnare. Impossibile non rimanere catturati dalle anime che si incontrano lungo il tragitto. La prima storia che Saviano sceglie di raccontare è quella di Ipazia, filosofa vissuta ad Alessandria d’Egitto, rapita e uccisa da alcuni studenti cristiani. C’è qualcosa di autobiografico, in questa prima narrazione (è facile scorgere frammenti di vita dell’autore in ciascun capitolo) (7): Saviano sostiene che la filosofa sia stata l'unica protagonista, in età tardo-antica, della storia delle parole, l’unica storia dell’umanità possibile, perchè «per me la Storia è storia delle persone che hanno combattuto con le parole, costruito con le parole, provato a cambiare attraverso le parole»; ci ha provato anche lui a cambiare attraverso le parole: in Gomorra scriveva «Mi si chiede come possano le parole mettere paura alle organizzazioni criminali. Ma ciò che spaventa non sono le parole: a fare paura sono i lettori.» (8) Lo ribadisce in Gridalo: «Capisci che il potere ha fastidio di chi scrive perchè in realtà ha fastidio di chi legge. (…) Il problema sono i lettori. Il lettore è un cercatore solitario, ma chi cerca scava, e a forza di scavare prima o poi trova.» Quelle di Ipazia, quelle del giovane Roberto e quelle del Saviano di Gridalo non sono mai state solo parole, ma schegge taglienti di idee luminose, strumenti potenti per costruire un futuro diverso, possibile, più giusto. Sono state speranza, lotta («Solo nella lotta mi sono sentito uomo, solo nella lotta ho provato un senso profondo di appartenenza al genere umano») testimonianza di vita. Forte e chiara ci giunge anche la storia di Giordano Bruno, arso vivo in Campo de’ Fiori, corredata di un’interessante riflessione sulla sua mancata abiura, che da anni stupisce ed interroga chiunque si accosti alla sua vicenda. E poi Emile Zola, che ebbe il coraggio di gridare, uno contro cento, «che credeva nella forza della parola. Pensava che se tu descrivi una realtà infame, quella realtà poi, per il solo fatto che ne hai parlato, inizia a cambiare, l’hai tolta dal buio e per molte vie la luce porta un cambiamento», morto poi in completa solitudine nella sua stanza in Rue de Bruxelles, civico 21 bis. «Tu pensaci sempre, prima di isolare qualcuno che lotta per i diritti di tutti.» I poeti, scriveva Peter Brook, hanno «un piede nel fango, un occhio alle stelle e un pugnale in mano», proprio come il giovane giornalista ventisettenne fotografato nell’ultima pagina di Gomorra di cui si parlava qualche riga fa. (9) Perchè si può denunciare «da lontano», ma si può testimoniare solo col corpo, da vicino, gettando il corpo nella lotta. (10) Saviano ha scelto di essere testimone, e ha imparato ad esserlo grazie a Robert Capa, dice: un fotografo gli ha insegnato a scrivere. «Quando si tratta di raccogliere la verità la visuale si uniforma, si mescola in un unico lievito madre, perchè quando si tratta della verità ogni strada si somiglia, ogni strada è la tua». Capa, pseudonimo di Endre Erno Friedmann, era emigrato negli Stati Uniti negli anni dell’American dream, quando quella terra a stelle e strisce era vista come la lampada a cui chiedere di realizzare i propri desideri. «Capa diceva che quando scatti una foto non devi mai mettere completamente a fuoco. E sai perchè?» Chiede l’autore al lettore «perchè solo se la tua vita non sarà perfettamente a fuoco vuol dire che stai vicino alle cose, che le stai vedendo, che le stai capendo.» E quindi serve esserci, sempre, col corpo e con la mente, come Pier Paolo Pasolini, altro testimone chiamato in causa, intellettuale di «quelli che ci si devono schiantare addosso alla vita, perché solo quando sono al tappeto, agonizzanti, allora riescono a descriverla.» Quello con l’intellettuale corsaro è un legame da sempre speciale: a lui Saviano si era ispirato per l’Io so posto nel suo primo libro, in quella dichiarazione intellettuale indimenticabile. Il sapere di Saviano già allora non rivendicava altro privilegio che l’esperienza, frutto di una posizione tutta soggettiva, ribadita con insistenza. (11) Con una scrittura che si fa carne, spesso, attraverso la scelta di immagini letterarie dure, crude, sensoriali (perchè «non puoi restare passivo mentre leggi, non puoi goderti lo spettacolo sdraiato sul divano. Se non ti attivi davanti al libro, se non gli dai immagini, corpi, timbri di voce, non si muove niente») Saviano vuole insegnarci che «gli uomini sono un impasto di vita e di morte, di verità e menzogna, di debolezza e ferocia, di bene e male», ed esortarci a respirare, riempire i polmoni d’aria nuova e poi gridare, prendere posizione, perchè la vita non è «solo fregare o farsi fregare» e «neutrale vuol dire complice». L’ultima, splendida riflessione rivolta allo studente della Diaz suona come un abbraccio caloroso, al termine di una lunga avventura: «È vero, io non vedo più molta speranza. Forse l’ultima speranza sei proprio tu, tu che ora stai seduto al banco del Diaz al posto mio, tu che devi ancora scegliere quasi tutto, tu che devi scegliere a quale lato del mondo credere, tu che devi decidere in che misura restare in ombra e quanto invece andare in cerca della luce. (…) Che tu decida sempre da che parte stare: parteggiare non vuol dire essere parziali, al contrario, vuol dire farsi corpo di una visione del mondo.» Antonio Gramsci l’aveva detto così, più di cent'anni fa: Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti. E proprio come Gramsci invitava ad istruirsi, «perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza» (e ad agitarsi - e quindi gridare? - «perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo») Saviano scrive «Ascoltami, il senso di vuoto che ti senti dentro riempilo di conoscenze, perché le conoscenze determinano sempre un percorso migliore di quello che scava, nella pancia, la rabbia: una voragine che presto o tardi t’inghiotte dopo averti masticato per bene.» Gridalo quando sta per vincere - anche in te - la certezza che nulla cambierà. Gridalo quando senti che stanno prosciugando il tuo respiro. Gridalo che non vale la pena vivere a queste condizioni, gridalo che tutto deve cambiare! *Ringrazio l’Ufficio Stampa Bompiani per la copia del libro. Se volete sapere qualcosa di più su Gridalo:
Note (1) L. Rampello (a cura di), Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941, Milano, Il Saggiatore, 2011. (2) Paolo e Baruch, L’usignolo della Chiesa Cattolica. In W. Siti (A cura di), Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie. Milano, Mondadori, 2015. (3) https://video.repubblica.it/robinson/il-dialogo-murgia-saviano-quando-e-necessario-gridare-tutti-insieme/370855/371464) (4) R. Saviano, Gomorra. 2006-2016, nuova edizione, Milano, Mondadori, 2016. (5) Citazione posta in esergo del capitolo 9, Fuori fuoco, p. 119 in R. Saviano, Gridalo, Milano, Bompiani, 2020. (6) Politica deriva dall’aggettivo greco πολιτικός, a sua volta derivato da πόλις, città. Era il termine in uso per designare ciò che appartiene alla dimensione della vita comune, dunque allo Stato (πόλις) e al cittadino (πολίτης). cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/politica_%28Dizionario-di-filosofia%29/ (7) Un altro esempio di autobiografismo può essere: «Se vuoi fare il giornalista, la cosa ti è perdonata finché ti limiti a scrivere, ma se ti metti a indagare o a suggerire piste, allora ti danno dello Sherlock Holmes, dicono che non hai perso la mania di comporre puzzle, come quando eri bambino.» (cap. 4, p.70, R. Saviano, ibid.) (8) Ancora, in Roberto Saviano, Gomorra, ibid., leggiamo: «Mentre i suoi assassini parlavano di tagliare la carne per suggellare una posizione, pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l'unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando.» (9) «Avevo i piedi immersi nel pantano. (…) Davanti ai miei occhi galleggiava un enorme frigo.» R. Saviano, ibid. (10) «Denunciare è affidare alle parole il compito di lasciare traccia. Testimoniare significa che sul tuo corpo cadrà la responsabilità di quello che dici e di quello che fai.» Perchè l’Italia grida. Colloquio con Roberto Saviano di Marco Damilano, L’Espresso, n.45, 1 novembre 2020. (11) R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014.
0 Comments
Leave a Reply. |