Il soffio del vento Che un tempo portava il polline al fiore Ora porta spavento Spavento e dolore Ma vedrai che andrà bene Andrà tutto bene Brunori Sas, Al di là dell’amore C’é pure chi educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono; ciascuno cresce solo se sognato. Danilo Dolci, Poema Umano Aver sviluppato interesse per la professione dell’insegnante nell’anno della pandemia, della didattica a distanza e del delirio scolastico è forse incomprensibile, quantomeno ambiguo. Eppure questo è, e io qui, circondata da libri di teoria della didattica - che cosa significa insegnare? - mi ritrovo a pensare il futuro di questa nave in mezzo alla tempesta da dieci mesi, così terribilmente sbeffeggiata dalle onde. Stamattina mi sono svegliata stropicciata, reduce da una notte di incubi insopportabili. Ho trovato sul tavolo, accanto al caffè, L’Espresso di oggi, domenica 10 gennaio 2021, con una bella copertina coloratissima, illustrata da Ivan Canu. Ci sono adulti e ragazzi vicini, con le braccia - e i cuori, in trasparenza - intrecciate, qualche schermo e qualche immagine pixelata. Poi un titolo forte e chiaro: DAD, disagio a distanza. Più in basso ho letto «Stress. Precarietà. Disturbi.» E ho pensato: finalmente. Fotografare la scuola, mettere il disagio in copertina e provare a raccontarlo dedicandogli un numero intero è un gesto importante. Forse allora è vero, non siamo soli: studenti e docenti, famiglie, dirigenti, personale ATA, passeggeri di quest’imbarcazione tanto sfortunata. Ci siamo detti, a marzo, che eravamo di fronte ad un evento straordinario, che non eravamo pronti (male!) e che sarebbe stata necessaria una buona dose di pazienza per affrontare il lungo inverno. Abbiamo stretto i denti e sperato che sarebbe finita, convinti che saremmo presto tornati fra i banchi, forse separati da barriere in plexiglas(s), che avremmo di nuovo tremato per la paura d’essere chiamati alla lavagna: era solo questione di tempo. Credevamo davvero che sarebbe andato tutto bene. Poi il vento che un tempo portava il polline e il fiore è diventato il fiato d'aura maligna, e ha portato, inaspettatamente, ancora spavento e dolore. Siamo tornati a scuola fiduciosi, a settembre, ma sentivamo quotidianamente la terra sgretolarsi sotto i nostri piedi: scivolavamo giorno dopo giorno su placche tettoniche in lenta ed impercettibile collisione - poi, di nuovo, all'improvviso, il terremoto. E di nuovo non eravamo pronti. Il 24 ottobre è stato il mio ultimo giorno di scuola in presenza. Entro il 13 novembre, ci avevano detto, "tornerete in aula, quasi certamente: sistemeremo la questione trasporti, abbiamo bisogno di tempo, le acque devono calmarsi." E le acque, puntualmente, di tutta risposta, non si sono calmate. È infuriata la tempesta e noi ci siamo trovati sulla stessa barca di sempre: scricchiolante e un po’ insicura - da anni, ormai - ma sempre accogliente. Ci siamo fatti ginestra, mi sono detta mentre QuellaDiItaliano mi incantava con Leopardi, col mio solito ingenuo ottimismo e l’insolita tendenza «a buttare tutto in letteratura». Il filologo Antonio Prete ha scritto sul canto leopardiano «Nel deserto sul cui cielo le stelle sono spente, le passioni vuote, le speranze consumate» nasce e cresce un fiore, la ginestra, che «ne raccoglie la luce e i silenzi». Ci sarà sempre “sobre el volcán la flor”, un fiore che cresce nelle intemperie e che col suo dolce profumo consola il deserto. Questo ho pensato, leggendolo: forse, in fondo, stavamo facendo questo, tutti insieme: resistevamo. Eravamo noi, la Scuola, volti, cuori e anime, il fiore sobre el volcán. L'Insegnante continuerà a spiegare, anche in mezzo al deserto: farà del suo mestiere una forma di resistenza. Oggi più che mai sa che può salvare. Ma resistere non basta, o almeno non si può resistere per sempre. E a quasi un anno dall’inizio della crisi pandemica e dalla chiusura delle scuole è forse tempo di interrogarsi. Cosa è successo? Cosa sta succedendo? «Uno Stato che resiste negli avamposti sanitari, grazie a un servizio nazionale che nonostante un decennio di tagli non è crollato, ma che affonda nel settore fondamentale dell’istruzione, così come quello dei trasporti, mentre le istituzioni centrali e regionali continuano a marciare ognuna per proprio conto, scaricando su dirigenti scolastici, docenti, famiglie e territori il conto della propria disunità.» Scrive il direttore Marco Damilano nel suo editoriale. Il messaggio è chiaro: la nave sta affondando. Ora è tempo di alzare lo sguardo e di raccontare le «ferite invisibili» degli studenti italiani. Lo fanno benissimo (chapeau e grazie) Carlo Tecce e Antonio Fraschilla. Tecce dialoga con David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. Lazzari constata che «La scuola chiusa apre nei ragazzi grosse ferite. Quelle invisibili, le più insidiose. Non facciamo finta che non esistano»; e svela che i dati raccolti anche per il Ministero dell’Istruzione «ci svelano che fra i ragazzi costretti a casa c’è un senso diffuso di stress, nervosismo, irritabilità e depressione.» Fraschilla scrive un articolo durissimo, raccontando un’ingiustizia terribile: «70 mila studenti con disabilità non hanno partecipato alla didattica a distanza tra aprile e giugno, e lo stesso sta accadendo in questi mesi». Per loro solo 3 mila euro a scuola per finanziare e organizzare «attività didattiche extracurricolari finalizzate al recupero di gap formativi». Al sud, quasi un terzo degli studenti disabili è rimasto fuori da ogni circuito formativo per «la gravità della patologia, la mancanza di collaborazione dei familiari o il disagio socio-economico». Famiglie abbandonate, divari che diventano faglie insanabili. Drammatico e terribile immaginare una scuola incapace di accogliere gli studenti e le studentesse più fragili. Ma ancora: Francesca Sironi dialoga con Riccardo Giannitrapani, insegnante di matematica e fisica al liceo Marinelli di Udine, che ritrae con grande amarezza le difficoltà dei docenti in tempo di dad: «Per i ragazzi che in aula guardano fuori dalla finestra, o hanno bisogno di alzare muri contro i compagni, a volte, contro gli insegnanti, questa situazione è devastante. In classe provo, riesco ad abbattere quel muro, ad instaurare una dialettica. Mentre online un adolescente che si sente in questo modo, semplicemente: sparisce. Si limitano ad evaporare.» E poi Giuseppe Genna che riflette sulla necessità di accogliere lo stop per pensare il cambiamento: «deve esserci una scuola prima e dopo la pandemia», una scuola che impari a mettere in pratica l'equità sociale, esigenza morale e politica di tutti noi. Quid nunc? A che punto siamo? Il valzer dei rinvii, il nebuloso velo di incertezza che avvolge l’universo scuola, lo scaricabarile istituzionale sul tema di cui parla Damilano nell’editoriale «non fa che accrescere un sentimento di estrema precarietà.» Ma il governo Conte e i governatori di regione protagonisti di questa brutta pagina di politica italiana pensano alle ripercussioni che le loro non-scelte possono avere sui ragazzi, sui docenti, sulle famiglie, sull’attività didattica? Ecco, mi chiedo: a noi qualcuno ci pensa? È giusto vivere imprigionati nelle rime di Lorenzo de’ Medici, chi vuol esser lieto sia / del doman non v’è certezza? Qualcuno vuol dirci le cose come stanno? Persino Agostino Miozzo, membro del CTS, si dice triste per i ragazzi (www.corriere.it/cronache/21_gennaio_09/agostino-miozzo-territorio-scelte-anarchiche-sono-triste-ragazzi-5a716012-5250-11eb-bd49-c1eb648dc155.shtml?cmpid=tbd_dc58f166Hf): allora cosa stiamo aspettando? Ma anche: se un rientro in sicurezza non è possibile per ragioni sanitarie, perchè non ce lo diciamo chiaramente e proviamo a programmarlo, per filo e per segno? Sono tante le proteste firmate dagli insegnanti che ho letto in questi giorni. Qui quelle che condivido, da studentessa, per quel che può servire, sono queste due: quella dei docenti del liceo Tasso di Roma (https://ilmanifesto.it/lettere/basta-propaganda-sulla-riapertura-delle-scuole-il-7-gennaio/?fbclid=IwAR10EqUEh1lDFltrUeFM5iVToetuQLn0PgSYvV2n_Ug2sH3A7J_Dx4ysZgg) e quella degli insegnanti del mio liceo, il Salvemini di Bari (https://bari.repubblica.it/cronaca/2021/01/06/news/scuola_68_docenti_del_liceo_salvemini_scrivono_alle_una_lettera_aperta_per_anticipare_il_vaccino_e_tornare_in_aula_siamo_-281363302/?fbclid=IwAR01MPbRZRDMzn5FkqoKblDsm0PkeNqv6IINDuehssTJG8XPbz3ab4ZFi7I). Posizioni forse lievemente differenti unite da un unico fil rouge: basta propaganda sulla riapertura delle scuole, adesso serve pianificare; adesso serve serietà. Riapriamo dunque, ma con percentuali di studenti in presenza sostenibili nell’attuale fase epidemica; potenziamo il trasporto degli studenti – vero nodo della questione; Intensifichiamo le frequenze del trasporto pubblico, aumentandole ai livelli delle ora di punta anche nella fascia oraria del rientro degli studenti alle proprie abitazioni (13.30 – 15.30). *** Pensieri sparsi 1) Provare ad alzare lo sguardo Alzare lo sguardo è il titolo di un libro scritto da Susanna Tamaro e uscito lo scorso anno per Solferino. Si apre con una riflessione meravigliosa sull'insegnamento che voglio riportare per esercizio di memoria, per non dimenticarla mai: Che cos’è l’insegnamento infatti, se non un improvviso «vedersi» tra esseri umani? Il più grande vede il più piccolo e intuisce quale sia la strada da indicargli per permettergli di sviluppare la parte migliore di sé. Un insegnante che ama il suo lavoro ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione. Può decidere di esporre il programma pedissequamente o può, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzo o a quella ragazza, un giorno, di salvarsi. Insegnare vuol dire schiudere mondi, dipingere universi nuovi, ma anche - per dirla con Recalcati in L'ora di lezione - «Aprire vuoti nelle teste, aprire buchi nel discorso già costituito, fare spazio, aprire le finestre, le porte, gli occhi, le orecchie, il corpo, aprire mondi, aprire aperture impensate prima.» Ma la riflessione di Susanna Tamaro si sviluppa oltre, e approda ad una considerazione interessante applicabile al nostro tempo, Una mia amica, scoprendo che gli studenti dell’ultimo anno giocavano a carte durante le sue lezioni, è andata a parlare col preside per capire come comportarsi. «Li lasci fare» si è sentita rispondere «tanto sono abituati così. E poi sono in quinta, quest’anno se ne andranno…» La solita tecnica dello scaricabarile: foglio di carta in mano e via. Non mi riguarda più. Ma i ragazzi-peso, una volta scomparsi dall’orizzonte, dove vanno? Diventano per lo più ragazzi-zavorra. Zavorra buttata a mare. O meglio, ragazzi-risacca: si fanno trasportare dalla corrente perché nessuno ha mai dato loro importanza, e questa assenza di importanza – e dunque di peso – li rende incredibilmente leggeri. È una leggerezza ingannevole, la leggerezza del nulla saper fare, del nulla sperare, del nulla desiderare. Una leggerezza che, in breve, si trasformerà in una inesorabile pesantezza. Pesantezza sociale, pesantezza individuale. Che cosa faranno, una volta diventati adulti, questi ragazzi da cui nessuno ha preteso niente, che nessuno ha mai davvero visto? Che lezione stanno imparando i 70 mila ragazzi fragili tagliati fuori dalle lezioni da aprile ad oggi? Dove finiranno i ragazzi "che evaporano" di cui parla il professor Giannitrapani? Quale futuro stiamo disegnando per loro, per noi tutti? Qualcuno si assumerà mai la responsabilità degli errori commessi, delle scelte sbagliate, delle frasi avventate, delle imprecisioni, delle storture, dell'impreparazione che si abbatte da marzo sul mondo della scuola italiana? *** 2) La necessità di non dimenticare l'importanza della presenza Insegnare è un improvviso vedersi, ed è difficile vedersi attraverso uno schermo, superare la barriera impalpabile dei pixel. Certo, la didattica a distanza è utile per affrontare l'emergenza, ma non potrà mai sostituire l'insegnamento in presenza, che va strenuamente difeso e recuperato al più presto. A tal proposito, il 30 marzo scorso su Griselda Online, Federico Bertoni ha scritto un articolo (https://site.unibo.it/griseldaonline/it/diario-quarantena/federico-bertoni-cinque-scene-cinque-punti-didattica-distanza) interessante sulle università che a parer mio può tornare utile per riflettere sulla scuola: Non c’è equivalenza possibile tra presenza e distanza. Non voglio invocare le ragioni dell’ontologia, qui probabilmente fuori luogo, ma nessun docente che abbia coscienza del suo mestiere potrebbe barattare le facce degli studenti in classe con il rettangolo luminoso di un monitor. (...) Ripeto, nessuna ontologia o legge di natura, ma un dato storico-culturale consolidato dal tempo e dall’esperienza: la teledidattica, utilissima in condizioni di emergenza, non potrà né dovrà sostituire l’insegnamento basato sull’interazione faccia a faccia e l’idea stessa di universitas in quanto luogo fisico e umano, luogo politico di incontro, dialogo e anche conflitto, dove corpi e soggetti in carne e ossa non si limitano a trasferire competenze ma mettono a confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo. 3) Parlare al conducente La riflessione di Bertoni continua in un saggio dal titolo "Insegnare e vivere ai tempi del virus", edito Nottetempo e disponibile qui per il download gratuito (www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/insegnare-e-vivere-ai-tempi-del-virus). Il concetto è molto chiaro e semplice: Dice cioè al governo e al popolo: tranquilli, qui va tutto bene, le università e le scuole possono stare chiuse perché tanto c’è la didattica a distanza. E invece no, c’è un’altra brutta notizia: le cose non vanno affatto bene. Non vanno bene all’università e non vanno bene a scuola, dove la situazione è molto piú drammatica. Se molti fanno finta di niente è solo per leggerezza o malafede, in un’alleanza perfetta tra l’ossessione securitaria di oggi e il sistematico, decennale svilimento delle istituzioni formative: scuola e università sempre sacrificabili, proverbiali ultime ruote del carro, tanto quei fannulloni dei docenti si adattano a tutto e non hanno Confindustria che lavora ai fianchi il governo. Forse ogni tanto dovremmo essere meno diligenti e un po’ piú lucidi, capaci di sospettare e anche di alzare la voce. (...) Non parlate al conducente. E invece dobbiamo parlargli, al conducente, soprattutto se sta sbagliando strada o rischia di finire nel fosso: dobbiamo dirgli di fermarsi e di invertire la rotta, perché troppi cartelli dicono che abbiamo imboccato una china pericolosa. *** 4) Cosa resta
Che cosa vuol dire questo, se non che la nostra classe politica vive cronicamente sotto l’insegna del «meglio un uovo oggi che una gallina domani», «del doman non c’è certezza»? E comunque il domani non ci riguarda perché, quando ci sarà, non ci saremo noi. Un Paese che taglia costantemente le risorse della scuola, che «ottimizza» le uscite, creando situazioni di fragilità sempre più estese, è un Paese privo di visione, incapace di immaginare un futuro diverso e migliore del presente. (S. Tamaro, ibid.) Un Paese che non riesce a pianificare un rientro sicuro, in cui scuola e università sono sempre sacrificabili, proverbiali ultime ruote del carro, è un Paese senza prospettiva. Il nostro dovere, oggi, è "parlare al conducente" ed esigere risposte serie, assunzioni di responsabilità, piani d'azione concreti e attuabili in tempi brevi. Discutendo con un utente di Twitter qualche giorno fa mi è stato detto che siamo una generazione sempre pronta ad esigere e a lamentarsi, come i nostri insegnanti e i nostri genitori, che ci hanno cresciuti proteggendoci dalla complicatezza della realtà. Io non sono d'accordo, e credo di aver dato prova, assieme ai miei coetanei - assieme a tutti gli studenti italiani - di essere capace di adattarmi al cambiamento, di abituarmi ad una nuova quotidianità. Adesso serve far ripartire l'istruzione. Per dirla con le parole di una mia coetanea, Giada Letonja, in un suo articolo su L'Espresso del 25 ottobre 2020: «(...) Bisogna prestare attenzione a quel bacino inesplorato di potenziale che sono le nuove generazioni, rimettendolo al centro di ogni discorso e investimento che miri al progresso. Non basta scongiurare un'altra chiusura.»
2 Comments
gianni
17/1/2021 09:30:03 am
Cara Giorgia, ho letto il tuo articolo sull'Espresso e mi è piaciuto, anche se sono addolorato per quello che soffri te e gli altri giovani in questi giorni tristi...
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Giorgia Loschiavo
17/1/2021 09:33:49 am
Salve e grazie infinite... per avermi dedicato del tempo e per il messaggio. Continuerò ad usare la mia voce e le parole per difendere le mie idee e i miei timidi sogni di futuro! La saluto :) grazie ancora. Giorgia
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