Con uno splendido gruppo di lettura scovato su Instagram (#italianidestate organizzato da @graziapugliese) mi sono tuffata nella lettura de La cognizione del dolore, romanzo scritto nel 1936 da Carlo Emilio Gadda. Conoscevo l’autore e la sua fama di impossibile-da-leggere, ma ho comunque pensato di avventurarmi in quest’esperienza di lettura, nella speranza di poter dire, alla fine, “Ce l’ho fatta”. E invece no. Non ce l’ho fatta, ha vinto Gadda, con i suoi incomprensibili giochi letterari e il suo disordine. Ho comunque apprezzato l’opera dal punto di vista “tecnico”, e credo che letta ‘a piccole dosi’ possa risultare davvero interessante. Mentre tiravo le somme della mia non-lettura, ho pensato di dedicare almeno un pomeriggio di studio a Gadda, cogliendo l’occasione per approfondirlo ed osservarlo meglio nel suo contesto storico-letterario. Brevi accenni alla biografia
Gadda nasce a Milano il 14 novembre 1893, figlio primogenito di un imprenditore e di un’insegnante di lettere ungherese. Ultimato il liceo nel 1912, Carlo Emilio abbandona l’idea degli studi letterari per iscriversi alla facoltà di ingegneria presso il politecnico. La placida tranquillità degli studi universitari viene interrotta nel 1915, quando viene chiamato alle armi. Combatte in trincea, vive Caporetto e finisce oltre un anno in prigione: un’esperienza profondamente segnante e incredibilmente traumatica. La prigionia lo getta in depressione, facendolo sentire inutile e vile. Tornato a Milano nel 1919 è costretto a fare i conti con la morte dell’amatissimo fratello Enrico, caduto in battaglia. La morte del fratello scatena le tensioni famigliari, irrigidendo il rapporto con la mamma ed il papà. Gadda si laurea nel 1920 e inizia a lavorare subito: viaggia molto, finisce in Sardegna e perfino in Argentina. Al rientro a Milano inizia e conclude gli studi presso la facoltà di filosofia, ma non presenta mai la tesi (su Leibniz). Dopo la morte della madre e la vendita della villa di famiglia a Longone, cimelio di un’infanzia triste e buia, nel 1936 Gadda inizia a scrivere La cognizione del dolore, “una sorta di rielaborazione della propria giovinezza e dei rapporti con la madre, la cui pubblicazione, fra il ’38 e il ’41, resta incompiuta”. Dal 1950 vive a Roma dove si occupa di programmi culturali in RAI. Dal 1955 decide di dedicarsi solo alla scrittura, lavorando al Pasticciaccio e ad altre opere inedite. Gli ultimi quindici anni di vita sono segnati da una intensa attività lavorativa di pubblicazione delle proprie opere passate. Muore a Roma il 21 maggio 1973. La formazione e le idee: fra ordine e caos Nella formazione dell’autore converge la tradizione “illuministica e positivista lombarda, con il culto della razionalità, della conoscenza scientifica, della trasformabilità pratica del reale”. Ma l’amore per la razionalità e per l’ordine convive con la seduzione esercitata dal disordine. “Tanto l’ordine quanto il disordine, tanto il rigido controllo razionale quanto l’abbandono alle pulsioni autentiche della corporalità attraggono e spaventano Gadda nella stessa misura”, ed è proprio in questa essenziale, profonda, spaccatura interiore che si legge la crisi del ceto intellettuale che ha luogo fra la prima guerra mondiale, il fascismo e la ricostruzione. Gadda ha portato sulle spalle il peso di questa frattura, e ha “rifiutato e deriso la risorgente figura dello scrittore-vate, dell’intellettuale-guida, scagliandosi sia contro l’esibizionismo di d’Annunzio, sia contro le reincarnazioni in chiave neorealistica di impegno civile fiducioso nella storia”. La complessità del mondo invade la pagina gaddiana L’attività dello scrittore è rappresentata da Gadda quale dura lotta con la realtà esterna, con cui ogni pretesa dell’io deve misurarsi. In queste parole che incontro sul manuale di letteratura curato da Luperini che sto studiando riecheggiano le parole del Calvino delle Lezioni americane, Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento. Come nevrotico, Gadda getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro. La cognizione del dolore, per quel che ho letto, non ha una trama. L’arazzo di parole, il groviglio caotico di cose e fenomeni copre il quadro, come uno straordinario sipario. Per Gadda, secondo il Roscioni de La disarmonia prestabilita, questa conoscenza delle cose in quanto «infinite relazioni, passate e future, reali o possibili, che in esse convergono», questa conoscenza del mondo come insieme di meccanismi, esige che tutto sia esattamente nominato, descritto, ubicato nello spazio e nel tempo. Ciò avviene mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture. Ma perchè? Calvino è molto chiaro nel farci comprendere questo passaggio complicato: Gadda sapeva che conoscere è deformare il reale. E quanto più il mondo si deforma sotto gli occhi dell’autore, tanto più viene coinvolto il self dell’autore stesso: viene deformato, sconvolto. È allora dunque la passione conoscitiva che porta l’uomo a ripiegarsi nella propria soggettività esasperata, e per questo l’uomo finisce per non amare se stesso, anzi si detesta, si lascia torturare, com’è rappresentato ne La cognizione del dolore. L’effetto artificiale della lingua gaddiana comunica quest’intricata passione conoscitiva, mettendo in rilievo il non-senso della normalità attraverso lo stracciamento linguistico. Quanto all’incompiutezza: la narrazione gaddiana è “di continuo distratta, costretta a percorrere vie secondarie nel tentativo di controllare ogni nuovo vuoto di senso che si apre nel procedere” e ancora, “di qui deriva anche l’impossibilità dell’autore di concludere le proprie opere e la necessità strutturale del non finito: la letteratura non può più davvero conoscere e organizzare in un sistema appagante ciò che ha conosciuto”. L’estrema funzione della letteratura L’unica funzione della letteratura può essere quella di registrare l’assurdità del reale, la stupidità dilagante della società borghese, il caos provocato dallo sviluppo produttivo e sociale nella modernità. Alla letteratura non è più riservata alcuna posa eroica, essa è ridicolizzata quale mistificazione, ma può essere utilizzata ancora come mezzo di conoscenza: l’unico approdo possibile, però, sarà il mare dell’assurdo. Letture critiche online 1. Doppiozero, Sfogliare il carciofo https://www.doppiozero.com/materiali/sfogliare-il-carciofo “Il commento critico, retorico e stilistico, al Pasticciaccio, costituisce un imprescindibile accesso al romanzo che Calvino definiva “eterogeneo calderone ribollente” nel cui groviglio “l’individuo razionalizzatore e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali d’una pianta carnivora”. Il giudizio di Calvino sul Gran Lombardo muterà seguendo l’alternativa che si poneva al protagonista della Giornata di uno scrutatore: “Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa”. L’universo narrativo di Gadda sarà tradotto dal Calvino delle Lezioni americane nel discreto comporsi di un intrico di fili dove “ogni minimo oggetto è visto come centro d’una rete di relazioni”, una rete che si propaga senza apparente controllo. Il capitolo “Molteplicità” si apre con una lunga citazione dal Pasticciaccio, che appare come la migliore espressione del “romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. Il commento critico del Pasticciaccio ci consente finalmente di sfogliare il carciofo, di accedere alle fonti, alle suggestioni, agli echi che formano lo sfondo dell’inventiva gaddiana.” 2. Doppiozero, Gadda: Divagazioni e garbuglio https://www.doppiozero.com/materiali/gadda-divagazioni-e-garbuglio “Non c’è stato uomo nel mondo delle lettere che più abbia sentito addosso il peso e la nevrosi dello scrupolo, la possibilità cosmico-storica di compiere memorabili figuracce: perpetuamente turbato, preda di remore e gnommeri laceranti, personaggio alfieriano par excellence, Gadda non poteva che svolgere il lavoro giornalistico e saggistico a modo suo: con geniale fervore e ineccepibile sintassi, ma anche con un grado di comprensibilità che disattende e disarticola tutte le regole della comunicazione.” 3. Le parole e le cose, Leggere Gadda oggi http://www.leparoleelecose.it/?p=7535 "Non si può negare che Gadda sia un autore difficile; ma il punto, messo a fuoco dalla critica specialmente negli ultimi anni, è che la straordinarietà della lingua gaddiana – tale da giustificare l’invenzione del paradigma storico-stilistico che chiamiamo, con Contini, «funzione Gadda» – fa ombra alla consistenza narrativa della sua scrittura. Credo occorra ripartire da lì per leggere (e probabilmente anche per insegnare) Gadda, da quella consistenza o meglio stratificazione, perché dietro a ogni scarto lessicale – arcaismi, dialettalismi, forestierismi, solecismi – si intravedono storie: della società in cui si inquadrano le vicende e dei personaggi coinvolti anche per un solo istante, un rigo o meno, nella macchina mimetica del narrare gaddiano. La complessità della lingua non è perciò la causa, ma la conseguenza della bulimia conoscitiva dello scrittore, che divora l’esperienza e ne restituisce i frammenti: brandelli di dialoghi, scorci descrittivi, cronache di fatti e persone. Per questo Gadda non è uno scrittore poco narrativo ma, all’opposto, è uno scrittore ipernarrativo; nelle sue opere, infatti, la moltiplicazione delle voci e delle prospettive serve a esprimere e quasi a rincorrere i mille rivoli reconditi attraverso cui le cause imponderabili sfociano in quell’effetto frastagliato che è il reale." 4. Fu Gadda un vero narratore? http://www.leparoleelecose.it/?p=1347 Se c’è un assunto passato in giudicato, riguardo a Gadda, è che fu scrittore grandissimo, sì; ma, si aggiunge, non certo «un narratore». Così concludeva Edoardo Sanguineti uno dei suoi ultimi articoli (letto su un suo ricordo del settimanale «Gli Altri»): non so se consapevole di essere d’accordo, su questo, con Pier Vincenzo Mengaldo e i suoi Giudizi di valore (1999). I nostri due massimi lettori di poesia condividevano un’idea di «narrativa», insomma, insensibile alla clamorosa soluzione di continuità rappresentata da Gadda (il «“vero” passo del racconto», per Mengaldo, non è «ingorgo ma sviluppo»). Questa pelosa ipostasi di Gadda «non-narratore» lo dimidia, come autore; ma soprattutto ci riconsegna un’idea di narrativa asettica, piallata, stolidamente taccagna. Quella oggi dominante, infatti, le ubique classifiche di vendita e i premi più televisionati (e dunque «prestigiosi»). Nel museificare Gadda lo si è espunto, di fatto, dallo sviluppo (o dall’ingorgo) della letteratura contemporanea. *** Il volume dal quale ho attinto le informazioni per la stesura di questo post è La scrittura e l'interpretazione, di R.Luperini, P.Cataldi, L.Marchiani, F.Marchese. I passi del libro sono citati fra virgolette.
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