La giovinezza, gli anni Ottanta, una molotov, un cigno, uno zaino a forma di koala. Una pelliccia, un attico. Il corpo, l’accettazione di sé, il sesso, la vergogna, la femminilità. «Datemi un attico. Un cigno». A lezione di letteratura da Teresa Ciabatti. Torna indietro, scrittrice, torna alla notte di tenebre della tua giovinezza, è forse racchiuso il segreto di tutto? Chi sei, ciò che ti terrorizza. Conta le volte in cui nei tuoi libri compare una bambola bionda. Figura evanescente, te stessa, riemersa per dire: è colpa mia. I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro. Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza (p.7) Je est un autre. Arthur Rimbaud, lettera a Georges Izambard Cominciamo da qui: Teresa Ciabatti ha scritto un libro bellissimo, si chiama Sembrava bellezza e l’ha pubblicato Mondadori all’inizio di quest’anno. È la storia di una scrittrice di successo, quasi cinquantenne, originaria della provincia e trasferitasi a Roma durante l’adolescenza, che scava nel suo passato. È una storia di rivalsa... Alt, fermi.
Perdonate la viltà di farvi credere che si trattasse di una storia di rivalsa, una vicenda edificante di incoraggiamento per tutti – umili, poveri –, quando era qualcosa di personale, una faccenda privata di espiazione. Nessuna persona buona si erge dalle ceneri della scrittrice di fama (sei mesi, poi l’oblio). Da adesso basta mistificazione, a parlare è la fallita – e indietro, nel passato: la colpevole. Ci siamo cascati. In Sembrava bellezza Teresa Ciabatti smaschera i meccanismi del gioco narrativo dondolandosi con maestria fra realtà, finzione, metaletteratura. «Mi sono sentita libera come con la Playstation, come quando dovevi costruirti un avatar e ti sceglievi i capelli, gli occhi, il corpo, e poi lo mandavi in altri mondi a combattere» [1]. È abilissima nel farlo: inganna, incanta, scuote, stravolge, poi rigenera. Con una sintassi frammentata, densa di punti fermi e di frasi brevi - veloce, ritmata - cattura il lettore coinvolgendolo fino all’ultima pagina. E oltre. (Sembrava bellezza è uno di quei libri che s’impongono, fieri, fra i pensieri, a lungo). Torniamo alla trama. La scrittrice è diventata famosa. Lei, l’ultima della classe, ce l’ha fatta. Ce l’ho fatta – parlo agli ex compagni di scuola, in un discorso interiore che dura da anni, in una fantasia che me li riporta davanti, ricchi, superbi. Assemblaggi di ormoni addomesticati, niente in loro era fuori controllo, addirittura gli appetiti, al pari dei desideri, tanto da desiderarsi tra loro in un’istintiva difesa della stirpe. Parlo a voi, di continuo a voi, immaginazione, sogno – capita di sognarvi, piccoli egoisti, quanto eravate pericolosi nell’incapacità di prevedere le conseguenze delle azioni, agire incoscienti, ridere leggeri. Per lei, solo per lei, sola anche nel giorno del suo diciottesimo compleanno, nella villa cinquecentesca affittata dai suoi, s’è compiuto il miracolo del successo. Quel miracolo, quel vento, le ha restituito frammenti (apparentemente) indesiderati di un tempo perduto: Federica, la sua migliore amica, è tornata ad abitare il suo presente. Compagna di mille pomeriggi passati a fare telefonate anonime (insulti, dichiarazioni d’amore al di qua di una cornetta) su un tappeto azzurro in una casa borghese dei Parioli, a Roma, è tornata da lei; Con sé, Federica - tu che entri nei circoli, in particolare il Circolo della Caccia a cui a me è impedito l’accesso, e ti siedi sui divani, e, pur tacendo – permetterti di tacere! –, rimani una di loro - porta il ricordo e la presenza di Livia, sua sorella, l’essere biondo, la più bella della scuola, Gambe lunghe, fianchi stretti, non c’erano state lezioni di danza né ore di sport a forgiare quel fisico perfetto. Tutta natura, seno compreso. Eccola ancora lì, in quel corpo aggraziato. Livia. Seno perfetto, dicevamo. Non cotone, non calzini – eravamo noi a inzeppare i reggiseni di calzini. La protuberanza di carne che sobbalzava a ogni movimento era tanto vera per lei, per il mondo, quanto dolorosa per noi appena sbocciate, dai seni piccoli, asimmetrici nel mio caso, così asimmetrici da richiedere camuffamenti, golfoni. Creature in formazione, esseri sghembi speranzosi di assestamento (non si pareggiasse con la crescita – aveva detto l’endocrinologo –, sarebbe da operare. E io nuda che tento di coprirmi con le braccia, sguardo fisso a terra per non vedere nello specchio quella cosa malformata). Marchiate a fuoco, noi. Questo eravamo di fronte a Livia, e i residui di lei non facevano che ricordarci la differenza. Livia si è gettata dal balcone in una notte d’inverno poco prima del suo diciottesimo compleanno (perché? Il lettore non lo saprà mai). La caduta l’ha poi marchiata a fuoco - lei - provocandole delle lesioni cerebrali molto gravi. Immagine cervello Livia: addensamento nero lato sinistro. Come chiamarlo – buco, falla. Dunque Federica torna nella vita della scrittrice. Porta con sé il passato, i ricordi, una vecchia canzone della nostra giovinezza. Ben presto affida Livia alla scrittrice - richiesta importante: posso accompagnare Livia a un controllo, si tratta di un favore grande, Federica ne è consapevole. Di qui in poi Livia diventa l’altra figlia (invidiata e rincorsa per una vita, ora è figlia - incerta, instabile, eccessiva, infantile, ingenua - e la scrittrice è madre. Materiale per psicanalisti. Arresa a una figlia che non mi vuole, ho smesso di rincorrerla, per poggiare amore e accudimento su Livia. Lei, l’adolescente a cui una caduta ha rubato l’età più bella. La scrittrice - adulta?) La prima figlia, di sangue, di corpo e di carne, si chiama Anita, ha vent’anni e studia a Londra. Amata e respinta, Anita è il suggello di una maternità raccontata senza filtri in tutti i suoi frammenti più complessi. Ossessionata dal fatto che Anita possa assomigliarle, terrorizzata dall’idea che ne abbia ereditato inadeguatezze, paure, disagi, vorrebbe salvarla da un baratro che (ancora?) non c’è. Io non sono te, sibila. Come sarei io, sentiamo. Spargi odio. Basta, sbotto. Se sei qui per insultarmi. Anita, sul serio, o parliamo tranquillamente. Sei una manipolatrice. E poi – ragionando, non so se qualcuno sia stato più crudele con me, se esiste persona, maschio o femmina, che mi abbia fatto tanto male, non i ragazzi del canestro, non Lavinia –, poi mia figlia dice: hai letto quello che scrivono di te? Fatti un giro in rete. Apri Google, digita il tuo nome. Donne, molte donne, con vite ingarbugliate alle spalle. Ma chi l’ha detto che la letteratura deve raccontare sempre e solo ‘le impeccabili’? Ciabatti si fa carico delle imperfezioni, della vergogna, della scorrettezza, del fastidio che ci abitano. «Non possono essere tabù, non possono essere condanna.» [2] Possono essere, però, oggetto di racconto schietto e onesto. Donne, dicevamo. La scrittrice, sua madre (Invece lei, mia madre, la pochezza culturale, i libri che ho trovato dopo la sua morte: Il gabbiano Jonathan Livingston), Livia, Federica, la loro madre (quando Livia si getta dal balcone resta agonizzante nel giardino del palazzo per un po’. Non la si trova più da nessuna parte: la madre afferra la pelliccia e corre a cercarla, a scuola. Afferra la pelliccia, ecco), Anita. E poi Emanuela Orlandi e le ragazze scomparse negli anni Ottanta, quando si credeva che nei camerini dei negozi d’abbigliamento ci fossero delle botole - botola, caduta, rapimento: tratta delle bianche era l’associazione di immagini che annebbiava la mente di qualsiasi madre, di qualsiasi figlia di quel tempo. È l’immagine di quella botola che mette fine alla giovinezza di Livia. È una caduta nel vuoto che unisce queste donne - e da una caduta nel vuoto (mancata, in un caso) ogni storia ricomincia, ogni filo si dipana. Anita partecipa a Caduta libera, la trasmissione di Gerry Scotti in cui i concorrenti eliminati cadono in una botola. Lei, però, non cadrà. Sembrava bellezza è un libro in cui i piani temporali si confondono, le carte si rimescolano di continuo - e poi, epifania!, tutto torna, quasi tutto ha senso. E tutto è vero perchè niente è vero. Sul filo. Autofiction, eterofiction - qu’importe? Sembrava bellezza è anche il dialogo spiazzante di una scrittrice con i propri lettori. Avvertenza, pagina 7: I fatti e le persone di questa storia sono reali. Fasulla è l’età di mia figlia, il luogo di residenza, altro. Cosa rientra nel termine «altro»? Dove finisce il vero, dove inizia il falso in questo romanzo incantatore? A Teresa Ciabatti non interessa: la scrittura, d’altronde, è la seconda rielaborazione e falsificazione inevitabile del ricordo (prima viene la memoria). Guy Debord, filosofo francese del secolo scorso, ha scritto, in Società dello spettacolo (1967): «Nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso» [3]: sentenza spigolosa, che nella sua ambiguità spiega come «il massiccio uso della verità» sia diventato «regola nel mondo della finzione». Il genere letterario al quale, forse, si può ricondurre l’opera di Teresa Ciabatti - scrivo: «forse» e «ricondurre», non associare: non credo sia giusto incasellare quest’opera in una definizione, in quanto complessa e multi-sfaccettata - è l’autofiction, nato con Fils di Serge Doubrovsky, libro in cui narra una giornata della propria vita ripercorrendone alcuni momenti attraverso una seduta psicanalitica: Autobiographie? Non, c’est un privilège réservé aux importants de ce monde, au soir de leur vie, et dans un beau style. Fiction, d’évènements et de faits strictement réels; si l’on veut, autofiction. Ciabatti si dichiara apertamente «contro l’autofiction», ma credo di poter immaginare questo corto circuito fra il suo romanzo e la definizione primitiva [4] del genere: faits strictement réels, scrive il francese; Non starò a dire il nome del bar perché persone, luoghi e avvenimenti di questa storia sono reali, ripete, precisa, puntualizza Ciabatti. È tutto vero - qualcosa, altro (tutto) è fasullo - fiction d’évènements réels. Ha scritto il critico Raffaele Donnarumma: «Per autofiction intendo con prudenza una narrazione in cui, come in un’autobiografia, autore, narratore e protagonista coincidono; ma in cui, come in un romanzo, il protagonista compie atti che l’autore non ha mai compiuto, e ai fatti riconosciuti come empiricamente accaduti si mescolano eventi riconoscibili come non accaduti.» [5] «Come è impossibile l’autobiografia totale, così nell’invenzione c’è sempre un dato personale» [6], ha detto Ciabatti: «io sono per l’autobiografia menzognera» [7], un’autobiografia di fatti non compiuti. In Sembrava bellezza ci siamo tutte: anch’io Quando Chiara Valerio ha presentato il Bianco di Francesca Mannocchi, ha detto: «Quando poi i libri sono veramente molto belli, succede questa cosa: tu diventi quello che scrive». Ecco, mentre leggevo Sembrava bellezza ho pensato proprio: in questo girotondo di donne ci sono anch’io. Intimorita da questo libro fra gli scaffali della Feltrinelli della mia città, lo ammiravo, sfogliavo, respingevo, poi l’ho comprato sfruttando il bonus cultura - diciotto anni, come le ragazze di cui si parla. Mi ha rapita. E con pudore, esitante, mi sono riconosciuta negli aspetti più inquietanti di alcune affermazioni, negli angoli più bui di certe pagine, nella vergogna, nella solitudine, nel rapporto con la malattia. «In questo libro c’è una ragazza trasversale, che comprende tutte le ragazze della storia, è la parte di noi più fragile, l’adolescente emarginata, messa da parte, non amata, non capita - al di là di quanto sia vero o no - tutte noi siamo state, in certi momenti, quella ragazza. E rimane dentro, quella ragazza. È il lato fragile della femminilità e della giovinezza.» [8] La giovinezza. Quella della scrittrice, di Federica, Livia, Anita, Emanuela Orlandi - la mia, perfino. Je est un autre, ha scritto Rimbaud. Qualcuno ha applicato questa frase meravigliosa alla teoria dell’autofiction («Cos’è questo altro e che rapporto esiste fra lui e “io”?» [9]). In Sembrava bellezza c’è di più - ci siamo noi abitati dagli abissi degli autres. (Ha scritto Jacques Lacan «L’Io è un oggetto fatto come una cipolla: lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito».) Suggerisco la lettura di queste interviste favolose:
[1] A un certo punto, nello scrivere, mi sono sentita libera come con la Playstation, dice Teresa Ciabatti, A. Greco, Linkiesta, 1 marzo 2021. https://www.linkiesta.it/2021/03/intervista-teresa-ciabatti-sembrava-bellezza/ [2] Scrittori a teatro - Sembrava Bellezza di Teresa Ciabatti - con Jonathan Bazzi, 22 marzo 2021. https://www.facebook.com/MondadoriLibri/videos/1322936111412684 [3] Tra il vero e il falso, C. De Majo, Minima et moralia, 20 luglio 2009. https://www.minimaetmoralia.it/wp/cultura/tra-il-vero-e-il-falso/ [4] Precisazione necessaria: in generale, «Come prevedibile, la definizione di Doubrovsky si presta male a descrivere quello che l’autofiction sarebbe diventata, soprattutto perchè attribuisce al termine ‘fiction’ un significato che non coincide con quello comune e prevalente». Peraltro, l’auto-definizione iniziale viene, in un certo senso, smentita nel corso del romanzo: «in Fils Doubrovsky inventa poco, o per meglio dire inventa cose che non si segnalano subito come inventate né tanto meno come menzognere». R. Donnarumma, Ipermodernità, il Mulino, 2014. [5] R. Donnarumma, ibid. [6] Teresa Ciabatti, Sembrava bellezza. Rai cultura, Letteratura https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2021/02/Teresa-Ciabatti-Sembrava-bellezza-aa172dd7-f0d5-4a1c-b410-c86b50bd1e47.html [7] Le interviste per il Premio Strega 2021: Teresa Ciabatti, Valentina Berengo, ilbolive.unipd.it, 14 marzo 2021, https://ilbolive.unipd.it/it/news/interviste-premio-strega-2021-teresa-ciabatti [8] Rai cultura, ibid. [9] Autofinzioni, Carlo Mazza Galanti, Minima et moralia, 8 luglio 2010. https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/autofinzioni/
1 Comment
Giulietta Fabbo
24/5/2023 10:55:41 am
Salve, mi chiamo Giulietta Fabbo e sono una docente di Lettere al Liceo Classico "Colletta" di Avellino.
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