Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. […] Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. […] Sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione. G. Verga, Prefazione ai Malavoglia Giuseppe, Vincenzo, io: sono tre i giovani al centro di Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, pubblicato con Einaudi nel 2009. Un romanzo denso (autofiction? Autobiografia menzognera? [1]) che fotografa l’adolescenza dei figli della borghesia barese negli anni ’80, fra post punk e droghe molto poco leggere. Sullo sfondo, in lontananza, accanto alla città - un orso per i boschi: l’URSS di Gorbačëv. E poi il lupo nel video di Thriller di Michael Jackson, gli USA. «Forse non c’era piú un orso nascosto oltre i confini del mondo conosciuto, ma c’era un lupo in città», scrive l’autore. Sono anni, questi, in cui la politica internazionale entra nella vita dei cittadini comuni, influenzandone scelte e timori. Riportando tutto a casa è un ritratto spietatamente efficace di un’epoca di lustrini e denaro, droga e morte - un’epoca fluviale, di pantagrueliche proporzioni storiche, della quale fa parte una vastissima galleria di volti noti che hanno cambiato le sorti politiche e culturali del nostro mondo. Nicola Lagioia la racconta in prima persona, affidando la costruzione del suo romanzo ad un io narrante giovane che ci restituisce il mondo attraverso il suo sguardo acuto, mentre fa i conti col mondo attraverso piccole odissee quotidiane - il rapporto col padre, imprenditore in carriera che indossa le stesse scarpe da vent’anni per risparmiare (millanta di trasferire l’intero nucleo familiare in una villa sfarzosa: non accadrà mai), il desiderio di riscatto sociale dei suoi proiettato sulla sua vita («Sproloquiavano di collegi svizzeri ritenendo che la nostra disponibilità di denaro potesse rendere tangibili certe immagini a cui durante gli anni delle giacche di seconda mano avevano guardato come dal foro di un caleidoscopio»), l’incontro con gli amici, figli di avvocati e piccoli imprenditori («Papà ci teneva alle buone frequentazioni»), la prima fidanzata, la prima dose di eroina, le feste durante le quali si balla musica rock («Ragazzo mio, la riconosci? Questa è What She Said degli Smits»).
La città è Bari. Il momento, gli anni Ottanta. Lagioia dipinge i contorni di una città investita da un travolgente sviluppo urbanistico ed economico, che incombe sulla scena narrativa e vi riversa il suo groviglio di buio. Sembrava che la città morisse dalla voglia di venirci incontro, e di travolgerci malgrado le nostre resistenze, di assimilarci in quel concerto di colori dentro il quale non sarebbe stato più possibile concepire anche l'idea di una singola nota stonata. Fra queste pagine incontriamo in nuce il Lagioia narratore de La città dei vivi, meraviglioso esempio di non-fiction, «un caso di cronaca [l’omicidio Varani] che diventa letteratura» nel quale Roma, in fondo, è uno dei personaggi più riusciti - la città eterna, la città senza fine, percorsa dal narratore sino al ventre della sua sempreuguale periferia. Anche questa Bari è una città dei vivi («Ci sono le città dei vivi, popolate da morti. E poi ci sono le città dei morti, le uniche dove la vita abbia ancora un senso» [2]) abitata da «sagome di eroinomani veri […] insultati, evitati, talvolta malmenati dai passanti a cui chiedevano due spiccioli» che emergono nel silenzio spettrale della sera. Ad una lettura più ‘urbanistica’ (e sofisticatamente espressiva) dell’ambientazione («C’è un blocco di tufo arancione che vorrebbe essere una casa ma sembra una piccola ziggurat riemersa dal centro della terra») si accompagna, dunque, una lettura sociologica interessante e ben riuscita. In Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss scriveva: Non è dunque in senso metaforico che si ha il diritto di confrontare – come spesso è stato fatto – una città a una sinfonia o a un poema; sono infatti oggetti della stessa natura. Agglomerato di esseri che racchiudono la loro storia biologica entro i suoi limiti e la modellano con tutte le loro intenzioni di creature pensanti, la città, per la sua genesi e per la sua forma, risulta contemporaneamente dalla procreazione biologica, dall’evoluzione organica e dalla creazione estetica. Essa è, nello stesso tempo, oggetto di natura e soggetto di cultura; individuo e gruppo; vissuta e sognata; cosa umana per eccellenza. [3] La città è cosa umana per eccellenza e il narratore Lagioia dimostra di saperlo benissimo: Cosí, camminando sotto il sole di maggio, scopre che il suo mondo rappresenta un’infinitesima porzione di quell’aperta vastità cittadina che è Bari negli anni Ottanta. Solo spostandosi di qualche chilometro a est, le boutique scompaiono del tutto, i palazzi pieni di stucchi cedono il posto all’imponente architettura del Ventennio che a sua volta si disperde sui primi marciapiedi in stato di rovina e sull’asfalto maculato di fili verdi e gialli. Mezz’ora fa era un asfalto servizievole, adesso è un ribollente e selvaggio manto nero che si dilata in ogni direzione sotto un sole che picchia in verticale sulla testa. Ecco, pensa Vincenzo, questo paesaggio desolato gli assomiglia. Le boutique e i palazzi pieni di stucco sono espressione dell’anima borghese e altolocata che abitava il centro cittadino. Pochi chilometri più in là sorge la periferia, ribollente e desolata, gli enormi tizzoni dei palazzi popolari, freddi e silenziosi, conficcati nell’asfalto di Japigia, terreno fertile per la malavita locale. Allora si convinceva che Japigia aveva in sé qualcosa che consentiva a chi la attraversava di venire in contatto con se stesso. Era come se tra quelle strade galleggiasse a uno stadio primordiale tutto ciò che nel centro cittadino si caricava di orpelli e di chiacchiere e di inutili giochi di specchi. Il che forse accadeva perché il principio su cui si reggeva il quartiere era di una semplicità a dir poco abbacinante. Il quartiere popolare diventa l’altro da sé in cui riconoscersi, specchio che permette di venire in contatto con la propria interiorità. «Lì dove c’è la mescolanza c’è una certa vita. Le città in cui i tipi umani si mescolano fra di loro sono quelle in cui è possibile fare esperienza» [4]: è nel punto di congiunzione fra i due mondi, dunque, che risiede l’epifania dell’esperienza: lì dove le vite della “Bari bene” si intrecciano in un abbraccio mortifero (il cui suggello simbolico è lo Sghigno, l’autista dell’avvocato Lombardi, papà di Vincenzo - spacciatore nel “tempo libero“) con le piccole male vite. Le chiamerà così con straordinaria lucidità intellettuale Alessandro Leogrande nel suo libro-inchiesta sul contrabbando di sigarette nella Puglia dei ’90: Il crimine è uno specchio straordinario delle trasformazioni sociali. […] Ha a che fare con la produzione di denaro, con la sua accumulazione e la sua redistribuzione. Ha a che fare con i rapporti di forza insiti nelle società che attraversa. […] Diventa spesso argine alla miseria e alla disoccupazione, e talvolta leva d’ascesa sociale, creazione primitiva di capitali. […] Oggi, più che di “malavita”, occorrerebbe parlare di “male vite“, al plurale. Le “male vite“ sono quelle delle gang criminali che vogliono farsi mafia, degli avvocati al soldo, dei poliziotti corrotti […] sono quelle dei rappresentanti di interessi degenerati, […] ma anche quelle di tanti, troppi uomini e donne stritolati in un sistema che si dà come immutabile. Le “male vite“ sono anche le vite perdute, quelle spezzate. [5] In Lagioia, le male vite, i sommersi, sono separati dai salvati da un ponte sospeso sulla linea ferroviaria: superato il colosso, unico ostacolo, La semplicità si complicava in un enorme flusso di denaro che ogni mese tagliava il nastro d’inaugurazione di ristoranti e sale giochi e autorimesse e negozi di vestiti ai quali la verginità veniva restituita attraverso gli ancora più complessi equilibrismi degli studi legali. Riprendiamo Leogrande: il crimine è uno specchio delle trasformazioni sociali. È la fine del 1985, «Qualcosa di molto simile alla follia meteorologica percorse l’economia del nostro piccolo paese. […] Sotto quelle ceneri c’erano altri soldi che bruciavano dalla voglia di passare di mano in mano, e tutta la città marciò quell’anno a ciclo continuo». Il padre del protagonista «lavorava anche sedici ore di seguito: furente, su di giri, senza mai avvertire la fatica, come sospinto da un vento magico». (Una descrizione non troppo diversa da quella che si farebbe di un tossicodipendente.) E così appare chiaro come quella febbre che attraversa la città coinvolga anche i suoi abitanti - padri e figli in misura diversa: i primi vengono trascinati dal denaro, in una fiumana di verghiana memoria, i secondi travolti dalla droga. I giovani protagonisti celano l’ombra maior di padri immersi in un mare d’affari più o meno loschi (partecipano persino ad una sottospecie di serata orgiastica in yacht per famiglie [wannabe?] borghesi). Su di loro, generazione di self made men, si posa lo sguardo impietoso del narratore, che nella sua onniscienza riporta disgusti e malesseri mondani. L’io narrante, sapiente regista di parole, ci accompagna nelle loro case, di cui descrive persino l’arredamento: pensiamo allo straordinario parcheggio semovente nella «villa hollywoodiana» dei Rubino, e ancora: «La grande sala era dominata da un bel divano bianco e da un tavolo di marmo intorno a cui tre ragazze chiacchieravano fra loro», «Il televisore era un 18 pollici poggiato sul mobile con le vetrate a fondo di bottiglia, attraverso le quali i volumi dell’Enciclopedia del diritto si trasformavano in un’esplosione cubista di macchie gialle» (tutte descrizioni poste in straordinario, vivacissimo contrasto con quelle del misero appartamento di Santo Petruzzelli, culla di giovani tossicodipendenti: «Alla cucina riconoscibile solo per via di un fornello elettrico, seguivano due grandi vani pieni di poltrone e sacchi a pelo e materassi disposti sul pavimento in modo casuale, cui si aggiungeva il ristagno del fumo e il sospetto di un impianto fognario non perfettamente funzionante.»). Negli ambienti borghesi si consuma la trimalcionica ascesa di parvenus («Aveva fatto il saldatore, il marmista, aveva aperto un chiosco di panini che qualcuno gli aveva incendiato in seguito ad una lite. E adesso possedeva questa villa gigantesca, questi discoboli di gesso, queste siepi rigogliose, questa piscina…») incapaci di gestire il lusso spropositato in cui navigano - ora antidoto, ora veleno. Il padre del protagonista perde il senno a causa degli affari: esiste una luna ariostesca che custodisca il liquor sottile e molle perduto da questi uomini? È lo spettacolo tragico della vita, antico quanto l’uomo. In tutte le - più o meno - umili dimore familiari che costellano questo romanzo c’è un televisore che butta luce su di loro [6] e puntella la quotidianità. Dal punto di vista della Grande Storia della cultura di massa, gli anni in cui Lagioia naviga sono densi di spunti interessanti. È finita allora l’epoca della Paleotelevisione, ha scritto Umberto Eco, quella che, «fatta a Roma o a Milano per tutti gli spettatori, controllava che il pubblico apprendesse solo cose innocenti, anche a costo di dire bugie» [7], una ‘scuola televisiva’ capace di appassionare i telespettatori trasmettendo il teatro di Pirandello in prima serata. Intrattenimento di livello, bello dal punto di vista figurativo, ha detto il critico Giorgio Simonelli [8], fatto da grandi registi capaci di inquadrature originali, sfumature cromatiche utilizzate con perizia e originalità perché la paleotelevisione poneva al centro della sua produzione la figura del regista. Con l'avvento delle TV private, quest’era giunge al termine. [9] Ora, con la moltiplicazione dei canali, con la privatizzazione, con l’avvento di nuove diavolerie elettroniche, viviamo nell’epoca della Neotelevisione. [10] La caratteristica principale della Neotelevisione è che essa sempre meno parla (come la paleo Tv faceva o fingeva di fare) del mondo esterno. Essa parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo col proprio pubblico. Non importa cosa dica o di cosa parli (anche perché il pubblico col telecomando decide quando lasciarla parlare e quando passare su un altro canale). Essa, per sopravvivere a questo potere di commutazione, cerca di trattenere lo spettatore dicendogli: io sono qui, io sono io, e io sono te. [11] Gli anni ’80 sono quelli delle reti private, del dominio Berlusconi - di MilanoDue, Fininvest, Mediaset, Drive In e i suoi lustrini eccessivi, «il primo tentativo serio di portare in Italia ciò che oltreoceano stava accadendo già da qualche tempo – ovvero cambi di scena fulminanti, sketch veloci il doppio, il triplo rispetto a quelli del passato e presentati soprattutto come se fossero spot pubblicitari.» (Interessante notare la posizione della prima citazione di Drive In, fine primo capitolo. Il secondo capitolo si apre immediatamente dopo con l’immagine di «due o tre lustrini luccicanti» - location: tendone del Gran Circo di Budapest). In questa riflessione sui mezzi di comunicazione di massa si colloca l’analisi dell’impatto mediatico generato dalla tragedia dell’Heysel: abbiamo imparato allora a fare i conti con il reality della tragedia, a relazionarci con il dolore degli altri? (C’è un sottile filo rosso che unisce quella reazione davanti al tragico all’immagine della bacheca di Marta Gaia, la fidanzata di Luca Varani, inondata di messaggi dopo la notizia della sua morte? Cambiano i tempi e i mezzi ma non la nostra capacità di ‘partecipare mediaticamente’ alla sofferenza altrui.) Come La città dei vivi, Riportando tutto a casa è un romanzo su un’intera società, storia di padri e di figli, di colpe di uomini accecati dal denaro, dalle ambizioni, storia di debolezze, vergogne, errori. Ed è anche un romanzo sulla letteratura, in una certa misura (moderata, tipica dello stile di Lagioia), sulle parole come strumento per provare a capire, a ricostruire (il passato, qui), per realizzare un ponte fra ieri e oggi - e dunque riportare simbolicamente tutto a casa. Fra le pagine Lagioia resta auctor absconditus, svela la sua voce ogni tanto, con grande sapienza, in giochi narrativi di rara eleganza. Cosí, per quella come per altre zone d’ombra, utilizzai degli strumenti che mi ostino a non voler fare coincidere con la semplice immaginazione. Ripensai a Vincenzo in sala da biliardo. Nel momento in cui stava per dare il primo colpo, lo isolai dal tavolo verde. Legai la sua concentrazione alla cupa altezzosità che gli aveva fatto alzare la mano in anticipo durante l’appello del primo giorno di scuola. Trascinai questo intrico di orgoglio e vigile risentimento indietro di sei mesi, e mi misi in attesa al quinto piano di un palazzo che avevo visto sempre e solo dall’esterno. Mi portai con l’orecchio alla porta d’ingresso e attesi ancora, fino a quando sentii la voce di un maschio adulto che diceva (…) In questo straordinario capoverso che mette insieme linguaggio letterario e cinematografico, creando un’immagine visiva ben chiara al lettore, pare quasi che Lagioia sveli il senso dell’operazione letteraria che conduce - illuminare zone d’ombra: mettere insieme dei pezzi esistenti e inventarne altri (non con la semplice immaginazione), laddove necessario, per provare a spiegare, a spiegarsi. In Sembrava bellezza, - molto simile per ambientazione storica e temi («Questa è una storia di scomparsi, di giovinezze spezzate. E in queste giovinezze rientriamo tutti» [12]) a Riportando tutto a casa - Teresa Ciabatti l’ha scritto così: Allora chiudo gli occhi, chiudo forte gli occhi, sono diventata scrittrice per questo: inventare, sistemare. Eccomi adulta coraggiosa, eccomi ad allungare il passo, scattare, mettermi sotto – le finestre, i balconi, i burroni, i dirupi della vostra giovinezza. [13] Le ultime pagine, le più belle: un flusso di coscienza joyciano (o un woolfiano momento d’essere?): l’io narrante rincorre Rachele per le strade di Japigia, lei si volta, lo guarda, gli dice: «Ma non capisci?». È questa la meravigliosa immagine simbolica di un passato inseguito, passato che ingloba e che contiene - smette mai di contenerci, il passato? - garbuglio da dipanare nelle pagine, per mezzo della parola. E poi Rachele ritta sulla collina nella sua atroce bellezza di diciassettenne mentre il suo crescere e diventare adulta usciva anch’esso dal mio campo visivo, anche di lei non sapevo più niente, lanciata nel futuro diventava un’assenza diventava una mancanza diventava un pensiero doloroso diventava la donna a cui ero stato lì lì per fare un colpo di telefono in una disordinata terrificante notte nel 1998, prendevo in mano la cornetta ma poi lasciavo perdere perché questa Rachele continuava a dire «ma non capisci?», quelle parole come una maledizione, che cosa mai dovrei capire? avrei continuato a chiederle nel tempo portando il nastro sempre più a ritroso man mano che il mondo ruotava nella direzione opposta (era accaduto dieci anni prima, e l’anno dopo erano già undici…), dovrei forse convincermi che niente di quello che successe allora ha una reale ricaduta su quello che succede adesso, inutile di conseguenza continuare ad arrovellarsi su Giuseppe e su Vincenzo, i nostri amici lontani, i nostri amici scomparsi, impossibile ricevere telefonate da loro, impossibile telefonarti nel presente mentre continui a dire «non capisci», inutile pensare che ci fu questa ragazza che una volta disse: «Vieni in cucina e aiutami a preparare una moretta...», se non ha ricadute nessuno potrà rimettersi mai in piedi, se non esiste significa che non è mai esistito, ma allora come mai continua a esistere ogni sera, tra le striature viola del cielo della sera e in uno stato addirittura precedente, sulla lunghezza d’onda dove la luce non è ancora percepibile – il tempo che distrugge è il tempo che conserva –, di conseguenza significa che mi dispiace, mi dispiace e non capisco, non capisco bene, non lo capisco ancora così bene. Che cosa mai dovrei capire?, si chiede l’autore. Forse non capiamo mai niente. D’altronde, «Non si arriva a conoscere tutto nemmeno di se stessi, – dissi, – altrimenti nessuno scriverebbe più un bel niente». [14] Note [1] Termine impiegato da T. Ciabatti per definire Sembrava bellezza, Mondadori (2021) [2] N. Lagioia, La città dei vivi, Einaudi (2020) [3] C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore (2015) [4] Terre d’autore. Bari con Nicola Lagioia, Raiplay https://www.raiplay.it/video/2019/02/Terre-dAutore---Bari-con-Nicola-Lagioia-f2b47817-a69c-4903-a715-1647f148df14.html [5] A. Leogrande, Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali, Feltrinelli (2021) [6] A. Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli (2021) [7] U. Eco, Tv, la trasparenza perduta, ora in U.Eco, Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Bompiani (1983) [8] Convegno scolastico +50 -50, intervento del prof. G. Simonelli sui linguaggi televisivi [9] Il limite fu considerare la TV come elemento della società e non come elemento dell’economia. S’aveva un progetto televisivo molto attento a ciò che succedeva nella società, nel panorama culturale, ma che teneva conto dei sensibili mutamenti della società italiana. La TV diventava oggetto del desiderio dell’imprenditoria, non più solo di quell’imprenditoria che aveva trovato spazio in Carosello - limitato. Il servizio pubblico fu sordo al boom dell’imprenditoria, ed esplosero le televisioni private. (G. Simonelli, ibid.) [10] U. Eco, ibid. [11] Michelone Guido, Neotelevisione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (05/05/2021). [12] T. Ciabatti, Sembrava bellezza, Mondadori (2021) [13] T. Ciabatti, ibid. [14] N. Lagioia, La città dei vivi, ibid.
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